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Lazzaro felice

Regia di Alice Rohrwacher vedi scheda film

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La recensione su Lazzaro felice

di scapigliato
9 stelle

Se Intemperie (Jesús Carrasco, Seix Barral, 2013) è il manifesto letterario del neoruralismo, Lazzaro Felice né è il manifesto cinematografico ancor di più di altre opere che ugualmente trattato il mondo agrario o per lo almeno selvatico, con taglio fantastico e atemporale e financo aspaziale, come per esempio Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015), I cormorani (Fabio Bobbio, 2016) o La guerra dei cafoni (Barletti, Conte, 2017) tra i tanti – di cui va detto che Torneranno i prati (Ermanno Olmi, 2014) è il prototipo magico; e non è un caso che il primo referente cinematografico di Lazzaro Felice sia appunto L’albero degli zoccoli (Ermanno Olmi, 1978).

Va precisato che il neoruralismo – in spagnolo neorruralismo – non ha nulla a che vedere con il ruralismo fascista, bensì con quello progressista nato nel XXI secolo come evoluzione di un pensiero etico e sociale già presente in Europa fin dalla Prima Guerra Mondiale e successivamente teorizzato dall’accademico americano  M. Thomas Inge nel 1969 con la pubblicazione di Agrarianism in American Literature (Odyssey Press) che sosteneva come la coltivazione del suolo permettesse un contatto diretto con la natura, un distacco etico e morale dalle barbarie e dai vizi dell’urbanesimo e del capitalismo, permettendo al coltivatore di trovare una propria identità, serena e armoniosa. Un’ideologia che si fa sempre più timida lungo l’arco degli anni Ottanta e che oggi invece torna con coraggio sulla scena sociale e culturale sia come rivendicazione ambientalista della territorializzazione, dell’autoproduzione e dell’autosostentamento in ottica antiborghese, sia come genere letterario e cinematografico in cui iconografia, moduli narrativi, eventi ed esistenti oltre a raccontare il rurale e il bucolico, rappresentano attraverso i loro simbolismi uno stato esistenziale di volta in volta nostalgico, ribelle o fuggiasco raccontando anche e soprattutto l’uomo moderno.

Alice Rohrwacher firma un vero capolavoro. Una fiaba agreste e metropolitana in cui le coordinate spazio-temporali vengono mischiate e confuse per ottenere sia un effetto di straniamento nello spettatore sia per conferire il carattere fiabesco e simbolico della narrazione e quindi dell’urgenza poetica dell’autrice.

Il paradosso temporale, per il quale vige ancora la mezzadria per una cinquantina di contadini tra donne, uomini, bambini e anziani mentre là fuori, oltre il fiume e oltre il ponte crollato, vive e vegeta la città, è l’elemento narrativo di partenza del racconto. In questo spazio ideale e bucolico loro malgrado, il tempo si è fermato e oltre la mezzadria brillano altri tópoi dell’arcadia perduta come le serenate, i canti e balli popolari, l’oralità, la superstizione e le mitologie pagane sincretizzate con la religione cristiana, il baratto e il duro lavoro nei campi. L’arrivo nella magione della marchesa senza scrupoli, interpretata da Nicoletta Braschi, funziona da contrasto tra natura e civiltà e permette la dialettica tra sfruttatore e sfruttato che, benché in termini didascalici, è chiara e lineare, manichea e politica, come giusto che sia soprattutto in un racconto di taglio fiabesco.

 Successivamente, altri paradossi iconografici permettono alla regista di sondare la fertilità del terreno narrativo fiabesco per elevare la propria opera a racconto esemplare. Mentre i contadini e il protagonista Lazzaro vestono come nel primo Novecento, e di stessa epoca sono i mezzi agricoli, le automobili e i furgoni, la marchesa De Luna veste con tailleur anni Sessanta, mentre il figlio Tancredi è un alto, secco e malnutrito figlio degli anni Ottanta con tanto di walkman e musicassetta. Inoltre, a rimescolare le carte ci pensa il coté cavalleresco del suo personaggio che stride con il suo aspetto indolente, tanto che la ricostruzione giocosa di un rapporto cavaliere-vassallo ricorda quello tra Don Quijote e Sancho Panza negli squarci di amicizia virile e inattesa tra i due ragazzi che si consumano nell’alto eremo di Lazzaro e nei vagabondaggi senza meta alcuna per gli aridi calanchi spoletini del viterbese. Inoltre, altri operatori di attualità, nella loro essenza di motivi liberi, contribuiscono al gioco estetico della fiaba, come la presenza di cellulari anni Novanta.

Sempre in questa prima parte del film, la migliore se vogliamo, il protagonista Lazzaro è solo uno dei tanti contadini sfruttati, con l’aggravante di essere tanto ingenuo da obbedire senza battere ciglio e di prendere sempre tutto alla lettera. Non capisce i giochi di parole né gli scherzi e non sa interpretare le malizie. La grandezza mitica del personaggio emerge per contrasto solo nella seconda parte del film, quella metropolitana, dove Lazzaro è davvero il Candido volteriano, il buon selvaggio che guarda con incanto la metropoli e rivede la sua campagna in dettagli apparentemente senza importanza come le frasche di cicoria che crescono ai margini delle strade. In più, il gioco straniante della prima parte del film, continua nella seconda con un ulteriore paradosso: Lazzaro è lo stesso Lazzaro di sempre, mentre i vecchi amici della mezzadria, come Tancredi e Antonia, interpretata dalla sorella della regista, sono cresciuti e invecchiati. Per gli anziani Lazzaro è diventato un fantasma, on diàol, mentre per Antonia è un miracolo e per Tancredi il mezzo fratello-vassallo ritrovato.

Nel mezzo, tra le due parti del film, quella agreste e quella metropolitana, c’è la morte di Lazzaro, omen nomen. Cade da un dirupo, viene avvicinato da un lupo, annusato e risparmiato. Si sveglia, torna alla cascina, scopre che tutto è stato abbandonato e se ne va in città dove dopo varie peripezie al seguito di una stramba corte dei miracoli, viene nuovamente visitato dal lupo in seguito a un vergognoso pestaggio per mano di “gente perbene” in fila ad uno sportello bancario. E stavolta muore davvero e forse, la sua anima, trasmigra in quella del lupo che vediamo correre per le strade di città, contromano.

Inutile dire che il lupo ha un valore simbolico non indifferente. Innanzitutto è presente, fin da subito, come parte integrante di una natura selvaggia e inospitale durante i giorni della mezzadria, tra ululati notturni e racconti dei contadini, ricoprendo così il simbolo del buon vecchio lupo nemico degli allevatori, spauracchio per bambini e giovani donzelle. In secondo luogo, assume il ruolo di psicopompo, traghettando Lazzaro dalla sua vecchia vita agreste a quella metropolitana. Il carattere mitologico della sua presenza è ben riuscito e non invasivo. È un richiamo silenzioso ed elegante ad un sostrato contadino e pagano che forma parte dell’immaginario folklorico dei nostri territori e permette a Lazzaro Felice, insieme agli altri accorgimenti stilistici scelti dalla Rohrwacher, di risultare tra i fiabeschi italiani maggiormente incisivi e manifesti degli anni zerodieci del nuovo secolo, anni in cui il cinema italiano sembra aver ritrovato la sua vena artistica più celebre innovandola con l’innesto di registri e generi abbastanza inusuali per il cinema nostrano, come appunto il neoruralismo e il fiabesco.

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