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Non sento più la chitarra

Regia di Philippe Garrel vedi scheda film

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La recensione su Non sento più la chitarra

di Aquilant
8 stelle

L’amore come perdita irreparabile. L’impossibilità di essere eroi e di non poter dare una svolta alla propria vita. L’ineluttabilità di un passato che pesa come un macigno. Il divenire turbinoso del presente che non lascia adito a riflessioni. Questi alcuni dei temi salienti di “J’entends plus la guitare”, che si riallaccia in parte all’incipit de “les baisers de secours”, dello stesso autore, in cui veniva messa in risalto l’impossibilità attribuita al personaggio di Jeanne (Brigitte Sy) di interpretare sé stesso nella finzione cinematografica. Quasi a conferma di tale presa di posizione il regista sceglie di proseguire nella sua (dis)organica “recerche” senza peraltro esporsi di persona, dedicando alla memoria della sua compagna Nico dei Velvet Underground, indimenticabile interprete di “All tomorrow’s parties”, questo suo capolavoro assoluto che in origine era stato progettato come un pellegrinaggio in treno fino al cimitero di Berlino, sede della tomba della cantante, con l’intera storia ricostruita tramite una serie di flashback.
Messi da parte i deliri chiaroscurali in bianconero dei precedenti “baisers de secours”, Philippe Garrel sceglie di affidarsi ad una fotografia dai colori solari e dalle tonalità calde e pastose intrise di morbide luminescenze che si integrano alla perfezione con i momenti di intimo trasporto lirico che l’autore riesce ad illuminare della luce dei suoi contrastanti sentimenti.
Il regista non cerca in alcun modo di mostrare per via diretta il libero sviluppo delle situazioni oggettive. Affidandosi ad un macchina da presa dallo sguardo volutamente rallentato delega quasi completamente all’ermeticità dei dialoghi ed agli sguardi fissi nel vuoto dei suoi personaggi lo svolgimento della narrazione, lasciando più che altro intuire l’evolversi degli avvenimenti, basandosi prevalentemente su piani sequenza volutamente statici e su campi e controcampi dove il battito della parola è sommerso dal suono del silenzio.
Garrel sublima il ricordo della sua compagna tramite un sentito atto d’amore tutto celebrato in sottrazione, evitando accuratamente le potenziali trappole innescate a causa della delicatissima materia trattata e riuscendo a rivestire della sua particolare sensibilità queste disadorne storie di ordinario squallore, tramutandole in una disperata musica sotterranea i cui accorati echi si fanno sempre più flebili fino a sparire del tutto, ingolfati in un’apparente semi indifferenza generale di seconda mano, ma in realtà destinati a lasciare dolorosi e duraturi strascichi nell’animo umano pervaso di tanto in tanto dalle mareggiate della memoria.
Cinema che si realizza nel suo raccontarsi come non-essenza,. come afferma lo stesso Enrico Ghezzi, dalle immagini che materializzano uno stato puramente mentale, totalmente svincolato dal pur minimo intento commerciale. Cinema che si muove in una maniera che si potrebbe definire “anarchica”, intimamente rapportata alla personale scansione dei flussi e riflussi interiori del suo artefice. Intento a scandagliare fra gli infiniti livelli di realtà alla ricerca di un’impossibile percezione ottimale del reale.
Cinema che scava nell’apparenza esteriore dei personaggi, deciso a decifrarne le fissità facciali per ridurle alla stregua di libri apertamente rivelatori, inducendoci in tal modo a guardare al di là dell’apparenza sensibile per leggere tra le righe i suoni delle corde dell’anima. Cinema in cui le parole sussurrate in sordina arrivano ad assumere uno spessore rilevante in grado di restituire tono e vigore ad una narrazione restia a procedere per assimilazione a causa delle insidiose ellissi temporali che affidano per l’ennesima volta allo spettatore il compito di riempire i vuoti da esse creati e di restituire in tal modo un senso ai brandelli sparsi di memoria autobiografica. Cinema dell’anima, dal passo lieve e meditato, precluso alle logiche prevaricanti dello star system hollywoodiano, dalle immagini distillate goccia a goccia con spiccata sensibilità, che riesce a commuovere grazie alla sofferta partecipazione emotiva dell’autore ed alla levità del suo sguardo, scivolando sottopelle quasi per un processo di osmosi naturale.
Ed anche se alla fine Garrel, sempre più riluttante a spezzare la perseveranza dello sguardo non riesce più a sentire la chitarra, l’intimità della sua musica interiore sarà sempre pronta a farci compagnia nelle nostre notti di (dis)quiete.

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