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La morte e la fanciulla

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su La morte e la fanciulla

di cheftony
7 stelle

“What the fuck is going on?”
“It’s him!”
“Who?”
“The doctor! The doctor who played «Death and the Maiden».”
[…]
“You were blindfolded.”
“The voice!”

 

Ben Kingsley, Sigourney Weaver

La morte e la fanciulla (1995): Ben Kingsley, Sigourney Weaver

 

Una bufera serale si sta abbattendo sulle campagne di un Paese sudamericano, in lenta ripresa dopo la caduta di un regime dittatoriale. Paulina Lorca (Sigourney Weaver) attende il rientro a casa del marito Gerardo Escobar (Stuart Taylor) e intanto, preparando la cena, scopre via notiziario radio che il marito – un avvocato – ha ricevuto un’importante promozione: quella a capo della commissione d’inchiesta che dovrà indagare su abusi e torture di cui il regime si è reso protagonista negli ultimi quindici anni.
Alla vista dei fari che si avvicinano alla sua abitazione, Paulina spegne immediatamente le luci e si arma di pistola, vedendo il marito a bordo con un estraneo. Gerardo, sceso solo dalla vettura, spiega di aver forato e di essersi fatto dare un passaggio da un signore, quantomai provvidenziale in una nottata tempestosa e per di più con la corrente elettrica saltata. Marito e moglie discutono brevemente sul ruolo che Gerardo andrà a ricoprire, già delicato di per sé e ancor di più in questo caso, giacché Paulina quindici anni prima è sopravvissuta alle torture delle death squad militari, che volevano sapere dove si nascondesse l’editore di un giornale studentesco di opposizione al regime; l’editore era Gerardo e già al tempo era fidanzato con Paulina, che non ha mai fatto il suo nome.
Poco più tardi nella notte, il gentile signore che ha dato il passaggio a Gerardo si ripresenta a casa Escobar, con la cortese intenzione di riportare la ruota di scorta dimenticata. L’uomo si presenta come il dottor Roberto Miranda (Ben Kingsley), ma Paulina rimane nascosta in camera da letto; ha già capito che quello è il dottor Miranda che la violentò e torturò quattordici volte mentre lei era legata e bendata, mettendo su la musica d’archi “Death and the Maiden” di Schubert. E Paulina vuole a tutti i costi una confessione, senza commissione d’inchiesta che tenga…

 

“Dorfman’s play is about reconciliation. He wants to suggest that after the fall of a dictatorship victims will occasionally come face to face with their torturers in the street. From now on, these people will be crossing each other’s paths in everyday life.” [Roman Polanski]

 

 

Il maestro della dilatazione degli spazi ambienta ancora una volta un film di tensione fra quattro mura: tratto da un’opera teatrale di Ariel Dorfman, che ha redatto anche la sceneggiatura insieme a Rafael Yglesias, “Death and the Maiden” non è che l’ennesima riprova dell’abilità registica di Polanski nel costruire opere di destabilizzante paranoia su intrecci talora perfino risibili (è decisamente il caso di “Frantic”). In questo caso, tuttavia, c’è alle spalle anche una scrittura consistente, con un forte riferimento storico-culturale: la mente non può che andare al Cile di Pinochet, innanzitutto a causa della provenienza di Dorfman e per ammissione dello stesso Polanski e dello scrittore nativo di Buenos Aires.
Il tema della convivenza fra vittime e carnefici in un Paese falcidiato per anni da una dittatura e con una democrazia ancora fresca e in assestamento in realtà non è poi così approfondito: bisogna rivolgersi ai poderosi documentari “The Act of Killing” e “The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer, nel caso. Qui, in realtà, siamo di fronte ad un thriller asciutto e ansiogeno, nonostante l’impostazione teatrale (che sovente ricorrerà negli ultimi lavori del regista, fra “Carnage” e “La Vénus à la fourrure”) e la dovizia di dialoghi. Un tema sul quale “Death and the Maiden” è saldamente imperniato è piuttosto quello dei rapporti di potere, che nell’opera di Polanski gioca un ruolo chiave fin dagli esordi. Qui assistiamo ad un ribaltamento dei ruoli: la vittima di un’orribile persecuzione diventa carnefice, che lega, benda e umilia un uomo per ottenerne una confessione, nonostante non si riesca a determinarne la colpevolezza; il dottor Miranda è davvero il medico affiliato al regime? Non confessa perché potente e impunito o perché davvero nel 1977 lavorava a Barcellona? In ogni caso, la sete di giustizia di Paulina è cieca, inarrestabile, non mitigabile dai principi democratici in cui lei e il marito hanno sempre creduto.
Ad aiutare la resa espressiva di una tale trama psicologica c’è un cast di prim’ordine, che vede contrapposti Sigourney Weaver e Ben Kingsley, torturatore e vittima intercambiabili. Stuart Taylor, nome meno blasonato, veste i panni essenzialmente di uno spettatore interno: il suo personaggio, quello del marito che ama la moglie nonostante le cicatrici (emozionali e non solo) lasciatele dalle crudeltà subite, è uomo di legge, avvezzo al giudizio equilibrato dei fatti; in questo caso, però, è l’unico a non conoscere la verità e a tribolare nell’incertezza, oscillando tra la fiducia nella furiosa Paulina, il cameratismo maschile verso l’equilibrato Miranda e la supremazia della legge sulla vendetta privata.
“Death and the Maiden” è a suo modo anche esercizio di stile non esente da difetti, visivamente pregevole grazie anche alle mani italiane di Milena Canonero ai costumi e di Tonino Delli Colli alla fotografia. Thriller solido che solleva continue domande grazie all’ambiguità dello sguardo registico, eccezion fatta per un finale che, bene o male, accontenta lo spettatore dando una risposta (per quanto ancora equivoca), fortunatamente ben consegnata via monologo da un convincente Kingsley. La scena finale si raccorda con gran classe a quella iniziale, sormontata dai titoli di testa e dalla musica del “Quartetto d’archi n°14” di Schubert, del cui movimento più celebre il film prende il titolo.

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