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La ballata di Cable Hogue

Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film

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La recensione su La ballata di Cable Hogue

di scapigliato
8 stelle

Lo zio Sam firma il suo personale "C'era Una Volta il West" (tra l'altro sempre con Jason Robards) anche se il suo ultimo western, "Pat Garrett & Billy the Kid", sarà il vero testamento poetico ed estetico sul cinema, sul West e sul Western. Ma anche questa "Ballata di Cable Hogue" ha in sè elementi chiari, quasi da manifesto. Lo smembrasi del varano ad inizio film, dopo aver capito che il protaginista è solo in un deserto tra i più desertici, ed è così affamato da mangiarsi pure un lucertolone schifoso, ci ricorda che il regista è tale Sam Peckinpah, ma poi ne prenderà le distanze. Il film seguirà un'andatura lenta e silenziosa, grottesca e in più punti brillanti. Vengono alla mente quelle commedie anarchiche vestite da film western, o film come "M.A.S.H.", la cui ambientazione militare tradiva la struttura anarchica di un film che era tutt'altro che denuncia militare, almeno direttamente. In "Cable Hogue" Peckinpah gioca a travestire da apologo sulla fine del West, con l'arrivo di una macchina infernle che ne causerà poi la morte banale e paradossale, un film tutto giocato sulla forza anarchica di situazioni tra loro scollegate, ma tra loro così fluide da ritenersi come parti integranti di un affresco umano che non fa una piega. La parentesi erotica del reverendo Joshua a casa di Claudia, piuttosto che le beghe per il contratto, accostate ai silenzi di Cable nel suo regno desertico, cozzano un bel po'. Ma è la forza del contrasto, non ultimo elemento del cinema di Peckinpah, a creare una struttura narrativa che sembra non esserci, e quando la si individua si capisce quale ne sia la sua forza anarchica, lontana dai canoni e dalle aspettative commerciali. E' questa forza che ci aiuta a leggere, poi, la via epica del protagonista. Nonostante non sia un cowboy in cerca di vendetta (ma vendicativo lo è ugualmente), o un desperado vagabondo, o un bandito che fugge dalla legge, Cable Hogue è un epico loner peckinpahniano tout-court. Ama la vita del deserto, sogna quella domestica della civiltà, ma non ci arriverà mai. E forse è plausibile anche che Cable si sia convinto di raggiungere l'amata Hildy a San Francisco, senza volerlo veramente. Fatto sta che la morte, piuttosto che cercarlo tra automobili, side-car, palazzi e lingerie profumata, è venuto a prenderselo grottescamente nel suo unico mondo possibile: il deserto. Quel deserto in cui la voglia di esser solo è forte come quella di trovare i propri simili. Una lacerazione rappresentata sempre con efficacia da quel paesaggio di sabbia e pietra che è il West.
Un po' grottesco, un po' "very Peckinpah", un po' felliniano, "La Ballata di Cable Hogue" è il secondo tentativo di apologizzare la Fine ultima delle cose. Non solo la fine del West, perchè il West, e il Western, come rappresentazione iconografica dell'universo emozionale di un uomo, non morirà mai, ma anche la Fine (sì, maiuscola) dell'uomo eticamente primitivo. La Fine di un'innocenza naturale che potrebbe esistere ancora, ma che l'uomo ha preferito sostituire col calcolo, il fondamentalismo morale e il vile Dio danaro. Ha smarrito il vero senso religioso della vita. Ha smarrito il vero Dio, volontariamente, per trovarne di altri e più comodi. Iniziata con il disperato "Il Mucchio Selvaggio" e finita con la sconfitta definitiva dell'individuo con "Pat Garrett & Billy the Kid", l'ipotetica trilogia peckinpahniana della Fine, passa anche attraverso questo controverso apologo sull'individualismo buono, quello che porta un uomo anche a morire in pace, come Cable Hogue.

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