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Que viva Mexico, il film "maledetto" di Sergei M. Eisenstein
di steno79 ultimo aggiornamento
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Que viva Mexico, il film "maledetto" di Sergei M. Eisenstein

 
Sono un grande ammiratore del regista sovietico  Sergej M. Eisenstein, di cui ho visto tutti i film, e che, pur essendo un gigante della storia del cinema, risulta probabilmente al giorno d’oggi una figura un po’ rimossa, conosciuta soprattutto dagli studenti di facoltà come il DAMS per le sue teorizzazioni sul montaggio intellettuale, oppure dai frequentatori di qualche cine-club (ricordo la retrospettiva che fu data a Bologna nel 1998, in occasione del centenario della nascita). Eisenstein non fu un regista particolarmente “fortunato” perché spesso dovette scontrarsi con difficoltà finanziarie o di censura, tanto che riuscì a completare solo sette lungometraggi, fra cui l’ultimo “La congiura dei boiardi” fu proibito da Stalin in persona e mostrato pubblicamente solo parecchi anni dopo la sua morte. Fra i progetti rimasti incompiuti spiccano “Il prato di Bezhin”, di cui rimane un misero cortometraggio che dà solo una pallidissima idea di cosa avrebbe dovuto essere il film, e soprattutto “Que viva Mexico”, girato fra il 1931 e il 1932 dopo un viaggio ad Hollywood su commissione dello scrittore socialista Upton Sinclair, e rimasto incompleto a causa di difficoltà finanziarie (sembra che Eisenstein girò su un budget miserrimo) e disaccordi con i produttori (Sinclair aveva promesso ad Eisenstein di inviargli tutto il negativo girato in Russia, ma non mantenne mai la promessa a causa del deterioramento dei loro rapporti). Dal materiale girato furono tratte diverse versioni apocrife, fra cui “Lampi sul Messico” di Sol Lesser (1933), “Time in the sun” (1939) di Marie Seton e “Eisenstein Mexican Film, Episodes for study” di Jay Leida (1954). La versione ritenuta più rispondente alle intenzioni originarie del regista è però quella curata da Grigori Alexandrov nel 1979, dopo che il Museum of Modern Art di New York aveva restituito alla Russia tutto il materiale girato da Eisenstein. Alexandrov svolse le funzioni di aiuto-regista e principale collaboratore di Eisenstein durante il viaggio in Messico insieme al fidato direttore della fotografia Edvard Tissé, e ci propone una versione filologica che dovrebbe essere la più vicina possibile al grandioso progetto di Eisenstein (è disponibile, per chi volesse vederla, anche su Youtube in versione originale con sottotitoli inglesi, e dura 84 minuti). Tuttavia, il suo lavoro fu davvero così filologico? Non sono mancati ad esempio valenti critici come il compianto Giovanni Buttafava che si opposero con forza alle versione di Alexandrov. Secondo Buttafava “La pseudo edizione critica sovietica di Que viva Mexico si è rivelata un fallimento: grottesco commento musicale fra Lavagnino e Quando calienta el sol, commento off tratto da appunti di Eisenstein, contrabbandati per testo definitivo, montaggio incerto, qualche “cautela” nell’informazione. Un’operazione che pare fatta apposta per rivalutare Lampi sul Messico di Sol Lesser (e la dimensione “spettacolare”, Hollywood) e soprattutto il lavoro davvero critico-filologico di Jay Leida, che allineava tutto il materiale girato, senza pretendere di costruire l’impossibile. Sorgono anche dubbi più sostanziali: il lavoro di Eisenstein in Messico sembra compromesso da approssimazioni turistico-ideologiche e da un’iconografia a volte d’un kitsch imbarazzante. Non che si siano scoperte inquadrature nuove (tutto era già in Lesser, nella Seton, in Leida) ma Alexandrov illumina, ahinoi, di riflessi finora nascosti il primo senso delle immagini. Anti-Barthes, a suo modo utile” (tratto da “S.M. Ejzenstejn” di Aldo Grasso, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, 1981, pag. 128-29).
 
Ho visto la versione di Alexandrov e non sarei severo come Buttafava, anche se non posso confrontarla con le versioni precedenti: a mio parere Alexandrov si è posto al servizio dell’opera e ha cercato, nei limiti possibili, di darle una forma il più vicina possibile a quella desiderata dal suo autore. E’ stata un’operazione lecita oppure no? Di seguito riporto il mio resoconto sul film, che vorrebbe essere in qualche misura anche critico (all’inizio era stato inserito nello spazio Opinioni, ma credo che quasi nessuno l’abbia notato) e, se esiste ancora qualche cinofilo appassionato di Eisenstein che magari ha visto il film, lo invito a dire la sua…
 
 
 
 
 
Il film inizia con un Prologo in cui assistiamo ad una cerimonia funebre di una tribù di indios dello Yucatan, fortemente ancorati nelle tradizioni del popolo Maya. Le inquadrature ci presentano i resti delle grandi piramidi Maya a Chichen Itza, i templi con le sculture di pietra che rappresentano antichi dei. In mezzo ai resti del passato troviamo diversi indios con volti dalle espressioni solenni, a suggerire una continuità fra il passato e il presente. In particolare, un uomo avvolto in un “serape” con gli occhi chiusi e assorti in un’espressione che sembra una sorta di “trance”. La musica che ascoltiamo di sottofondo è musica elettronica ottenuta col sintetizzatore, che ha un effetto piuttosto ipnotico.
 
Il primo episodio vero e proprio è “Sandunga” (nome di una canzone folk che ascoltiamo come accompagnamento musicale), che si svolge a Tehuantepec, vicino al Guatemala. Il villaggio è situato in una foresta tropicale con palme rigogliose, scimmie, pappagalli e coccodrilli che nuotano nell’acqua. L’episodio racconta principalmente di una ragazza del villaggio chiamata Concepcion che desidera sposarsi; la tradizione del villaggio vuole che la ragazza debba avere come dote una collana d’oro, che Concepcion riesce ad ottenere con i risparmi del suo lavoro; le anziane del villaggio esaminano la collana, verificando se si tratta di oro vero. Infine giunge il giorno delle nozze con Abundio, un uomo sereno e sorridente, che due anni dopo la renderà madre all’interno di una società patriarcale armoniosa e priva di conflitti. L’episodio utilizza tonalità dolci e soffuse, senza alcuna implicazione politica, tanto che risulta piuttosto atipico per Eisenstein, e una delle sue opere più sensuali, una sorta di sogno ad occhi aperti che sostituisce l’aspro realismo rivoluzionario dei film precedenti. Nella versione di Alexandrov, l’episodio appare un tantino troppo idealizzato, a tratti tendente quasi alla cartolina turistica pur con composizioni visive di ampio respiro, e con una musica spagnoleggiante un po’ troppo sciropposa.
 
L’episodio seguente è “Fiesta”, che si apre con scene dei festeggiamenti per la Vergine di Guadalupe, con molti fedeli abbigliati con costumi piuttosto eccentrici che ricordano quelli dei Cavalieri Spagnoli del Medio-evo; oltre alla festa della Vergine assistiamo ad altre cerimonie religiose come la cerimonia Pasquale della Via Crucis, con tre uomini che rappresentano Cristo e i ladroni caricati di pesanti croci spinate sulle spalle, che salgono centinaia di gradini insieme ad una gremita folla di pellegrini in ginocchio fino a raggiungere un monastero che si trova sul sito di un antico tempio dei Maya. L’episodio si conclude con una lunga sequenza di corrida in cui si esibisce il torero locale David Liceaga, sequenza che stando ad alcune fonti sarebbe stata ripresa dal vero. La parte della corrida, che include gli elaborati preparativi a cui si deve sottoporre il torero, è probabilmente la meno interessante, mentre le immagini più memorabili si ritrovano nelle sequenze della processione con l’elemento figurativo del triangolo (evidente nell’immagine dei tre uomini crocifissi) che rimanda al simbolismo religioso della Trinità, oppure in altre scene che riguardano il clero, ad esempio in una famosa immagine disposta su tre piani in cui in primo piano abbiamo tre teschi, dietro i teschi abbiamo quattro monaci dall’aria solenne e dietro i monaci quattro bambini abbigliati con abito talare che reggono una croce (l’effetto prospettico è sapientemente utilizzato). Personalmente non arriverei a parlare di anti-clericalismo, anche se il contrasto fra la giocosità dei festeggiamenti della povera gente e l’eccessiva austerità dei monaci è evidente.
 
Il terzo episodio è “Maguey”, probabilmente il più famoso perché fu quello che venne maggiormente utilizzato in “Lampi sul Messico” di Sol Lesser (che non ho visto). Questo può essere definito un episodio a soggetto rispetto al Prologo e a Fiesta, che sono essenzialmente documentari. L’episodio si svolge all’epoca del dittatore Porfirio Diaz, prima della rivoluzione, in una struttura sociale di stampo feudale. Un signorotto proprietario di una hacienda sfrutta crudelmente i peones adibiti alla produzione del “pulque”, una bevanda alcolica. Uno dei peones, Sebastian, si reca dal proprietario della hacienda per avere il suo consenso per sposare la sua fidanzata Maria; durante la visita Maria viene approcciata da un ospite ubriaco che la conduce a forza in una camera, presumibilmente violentandola; quando Sebastian si ribella sfidando l’ubriacone, viene cacciato a forza dalla hacienda e Maria viene fatta prigioniera. Sebastian tenterà in seguito di liberarla assieme ad alcuni amici peones, ma la loro azione fallirà, anche se durante la sparatoria resterà uccisa la figlia del proprietario terriero. I ribelli verranno allora catturati e puniti con una morte terribile: sepolti vivi fino alle spalle, verranno travolti e schiacciati dai cavalli condotti dagli sgherri del signorotto, e la povera Maria si recherà in lacrime sul corpo del suo fidanzato, ormai morto. Probabilmente è l’episodio più significativo dell’intera pellicola: c’è un indubbio rigore nella costruzione visiva con un netto contrasto fra le scene ambientate negli spazi desertici ed illimitati e quelle ambientate nella hacienda, dove la spazialità diviene ristretta ed opprimente (un contrasto visivo che amplifica quello morale fra i contadini con i loro valori di rinnovamento e i loro corrotti padroni). Nella scena dell’esecuzione abbiamo di nuovo il motivo del triangolo con l’immagine dei tre peones stagliati contro il cielo, con le mani legate, immagine che riprende chiaramente quella analoga dell’episodio “Fiesta”; i volti dei tre uomini esprimono paura, rassegnazione, ma anche un senso di sfida contro l’ingiustizia, una rivolta che diviene chiaramente il trait d’union con le altre opere del regista di esplicita propaganda rivoluzionaria come “La corazzata Potemkin” od “Ottobre”. La tragica conclusione dell’episodio è una scena di grande cinema all’insegna di una contemplazione che si sposa perfettamente con l’estetica del cinema muto (nel film non ci sono scene dialogate né didascalie, solo una voce fuori-campo, che è stato un espediente un po’ forzato ma inevitabile da parte di Alexandrov).
 
In seguito c’è un intervento dello stesso Alexandov in sala di montaggio, che spiega che avrebbe dovuto esserci un altro episodio dal titolo “Soldadera” che avrebbe parlato delle donne dei combattenti rivoluzionari durante i moti del 1910. L’episodio non fu girato per mancanza di fondi e per dissidi con i produttori, rappresentati dallo scrittore Sinclair.
 
Infine c’è un Epilogo ambientato nel Giorno dei Morti, il 2 Novembre, che in Messico viene vissuto come una sorta di bizzarro Carnevale, con la gente che indossa maschere a forma di teschio, mangia dolcetti a forma di teschio, balla e ride con finti scheletri. Il ritmo di questa sezione è sostenuto e le immagini scorrono con estrema fluidità: la voce del narratore dice che “Questo non è il culto della morte, ma il trionfo dell’Uomo sulla morte attraverso la sua presa in giro”. A un certo punto, molte persone si tolgono le maschere da teschio e vediamo molti volti sorridenti, soprattutto di bambini. Poi c’è una figura che si toglie la maschera, e sotto vediamo un vero scheletro: gli scheletri sono abbigliati con uniformi militari e con gli abiti tipici dei ricchi capitalisti. “Ecco i cadaveri di una classe scomparsa”. Eisenstein ci mostra infine un ragazzino sorridente che simbolizza il Messico del futuro, e suggerisce che la vera incarnazione del Messico è nella gente comune, non nei relitti di una classe oppressiva ormai cancellata dalla storia.
 
 
 

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