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La seduttiva visionarietà di una violenza provocatoria metaforicamente disturbante fra anarchia e surrealismo
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La seduttiva visionarietà di una violenza provocatoria metaforicamente disturbante fra anarchia e surrealismo

Fernando Arrabal è stato sicuramente una delle figure più provocatoriamente significative fra quelle che hanno attraversato la scena delle avanguardie artistiche di metà novecento.
Autore poliedrico e versatile, già bambino prodigio a dieci anni per le sue riconosciute qualità di scrittura (vinse addirittura un premio per questo), ha lasciato tracce significative del suo talento in più di un settore (la conoscenza che fornisce Arrabal viene permeata di una luce morale che è contenuta nella materia stessa della sua arte, ha scritto di lui il premio Nobel Vicente Aleixandre).
E’ infatti saggista, scrittore, drammaturgo, regista cinematografico e persino pittore a tempo perso (anche se le sue  incursioni artistiche in questo campo possono definirsi abbastanza sporadiche, è stato tutt’altro che inattivo, poichè  ha dipinto ad oggi più di una cinquantina di quadri oltre a  un centinaio di disegni  e collage, alcuni dei quali esposti, tra gli altri, presso il Paris Art Center, Bayeux e il Carlo Borromeo di Milano).
Voce perennemente “contro”, si è distinto per la sua forte opposizione al franchismo (e nella Spagna fascista di quegli anni ha provato anche la terribile  esperienza del carcere, che testimonierà nel dramma   E misero le manette ai fiori). Particolare importanza al riguardo, assume proprio la sua Lettera al Generale Franco (Carta al General Franco) pubblicata quando il dittatore era ancora al potere, che fece inserire il suo nome fra i cinque spagnoli più pericolosi per il regime, insieme a quelli di Carrillo, la Pasionaria, Líster,  e del Campesino.
Decisamente prolifico come scrittore, ha al suo attivo la pubblicazione di quattordici romanzi, una immensa produzione poetica, vari saggi (alcuni dei quali dedicati al gioco degli scacchi), e una nutrita serie di testi teatrali che movimentano due corposi volumi (il più conosciuto e famoso è forse L'Architetto e l'Imperatore d'Assiria, ma il mio personale “contatto” anche operativo con questo autore, va fatto risalire invece alla scoperta di due fulminanti atti unici, Pic-nic e I due carnefici, grazie alla meritoria collana di teatro di un editore illuminato qual’era Lerici). Mel Gussow sul “Dictionnaire des littératures de langue française”, lo ha definito  autore di un teatro geniale, brutale, sorprendente e gioiosamente provocatorio. Un potlatch drammatico in cui i rottami delle nostre società “avanzate” si carbonizzano nel festoso recinto di una rivoluzione permanente, aggiungendo poi che ha ereditato la lucidità di un Kafka e l’umore di un Jarry e che  per la sua violenza può essere paragonato a Sade o ad Artaud.
Esistono inoltre alcuni interessanti adattamenti cinematografici  delle sue opere,  non da lui curati in prima persona, fra i quali vorrei per lo meno citare  Guernica  (regia di Peter Lilienthal), Fando y Lis (regia di Alejandro Jodorowsky),: Le Grand Cérémonial (regia di Pierre-Alain Jolivet), El triciclo (regia di. Luis Argueta), El ladrón de sueños (regia di Arroyo), Pique-nique (regia  di. Louis Sénechal) che conosco però solo “ per sentito dire” visto che sono tutti titoli praticamente inediti in Italia, ma che testimoniano l’attenzione che si è spesso riversata sul suo nome.
Fondatore insieme a Alejandro Jodorowsky e Roland Topor del gruppo Panico (1963), ha fatto anche parte del gruppo surrealista di André Breton, esperienza importante e fondamentale che sta alla base proprio di gran parte del suo percorso artistico.
Le mode ovviamente passano, tramontano gli ardori furenti della passione, e al riconoscimento incondizionato del talento viene lentamente e progressivamente messo la sordina… così adesso qui da noi anche il suo possente ecletticismo ha perso il suo splendore di un tempo, stemperandosi lentamente nella crescente indifferenza “di uno dei tanti” e forse “nemmeno il migliore”, che lo ha relegato in un marginale isolamento “disconoscitivo” persino in relazione a un valore fortemente rappresentativo di un’epoca,  che rimane comunque elevato e importante,  per non dire fondamentale, ed è appunto in quest’ottica che mi è sembrato necessario riesumare all’attenzione più generalizzata una personalità  “speciale” come la sua, per altro ancora attiva e indomita nonostante l’età.
Il suo rapporto con il teatro è stato sicuramente quello più continuativo e articolato (lo dimostrano le oltre duemila pagine che compongono i due volumi della sua “opera omnia” in questo specifico segmento: costantemente rivisitato dalle compagnie d’avanguardia che pullulavano i palcoscenici  dei teatrini periferici e delle cantine di quei favolosi e irripetibili “anni ‘70” così pieni di inventiva, posso testimoniare personalmente che breve ma intenso lasso di tempo, il suo nome  è stato uno dei più stimolanti numi tutelari a cui ispirarsi per rappresentare e traslare, le proprie rabbie rivoluzionarie, i propri “manifesti etici” in una forma in movimento che rifiutava la statica, convenzionale conformità  borghese della messa in scena del teatro di tradizione.
Rileggiamoli allora quei testi: troveremo tanti nuovi spunti e stimoli (forse un po’ “datati” ma ancora vivi e tutt’altro che archeologiche  reliquie), perché nelle sue opere  c'è  sempre una storia “in progress” depurata da ogni ipotesi di manierato formalismo, e quindi “cruda” e imprevedibile, mai  scontata, e soprattutto totalmente priva di quei rispettosi servilismi ossequienti del “politicamente corretto” imposti proprio da quella “buona società” che viene questa volta messa  impietosamente alla berlina, nelle assurde e controverse forme che Arrabal estrinseca attraverso le sue pièce fra riti, ossessioni, fobie e incubi rivissuti nell’impossibilità evidente di liberarsi dai ricordi. La sua è una brutalità visionaria di forte impatto demistificatorio che “osa” l’impossibile: la necrofilia, l'intolleranza, l'erotismo, l'incesto, l'omosessualità,  la schiavitù, la religione, la famiglia, diventano così le occasioni di scrittura sulle quali l’autore si esercita a provocare con inusitata cattiveria, utilizzando una invenzione scenica di immediata presa che riproduce la sua arte dello scrivere, su scenari a volte tragici, a volte comici, ma sempre allegoricamente pregnanti, grazie a un inusuale talento visionario denso di metafore e di urticanti “contaminazioni” che doveva necessariamente approdare anche ad altri spazi più strettamente legati alla “immagine” vera e propria, come è appunto accaduto, ancora e sempre in quel decennio così fondamentale che lo ha visto realizzare un cinema diverso e disturbante che forse regge meno al tempo e alle trasformazioni che ci hanno così profondamente modificato persino nelle percezioni, ma che rimane ugualmente fondamentale (penso alla sua opera prima così dirompente),  per “comprendere” meglio quegli anni e quel furore iconoclasta che ci portava ad immaginare di poter davvero rivoltare il mondo e le sue strutture anche sociali.
La “meteora” cinematografica che ha rappresentato (riferita a ciò che ci è arrivato qui in Italia) è formata solo da tre titoli, ed è su questo, visto che qui proprio di cinema si parla, che cercherò di concentrare l’attenzione e l’interesse (la sua produzione, sicuramente come sceneggiatore, ma anche come creatore di immagini, è stata più ampia, ma io solo questa conosco e solo di questa posso fornire “testimonianza”).
Anche il cinema, così come  i suoi drammi o i suoi romanzi, è e rimane strettamente collegato alla sua vita, non si sottrae all’attrazione del ricordo, tanto chi si può affermare con assoluta certezza che è proprio l’elemento autobiografico a costruire la base e l’ossatura di tutto ciò che Arrabal  ha fatto e raccontato, in qualunque modo si sia espresso, soprattutto, e a maggior ragione,  nel periodo più stimolante del suo percorso artistico.
La sua vita infatti, è stata estremamente movimentata e travagliata, a cominciare dall’infanzia, segnata indelebilmente dalla scomparsa  del padre, arrestato nel 1936, condannato a morte  e poi graziato per essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico dal quale non farà mai ritorno e dentro al quale si smarriranno per sempre e definitivamente le sue tracce).
Arrabal rimarrà  così ancorato per sempre al mito della figura paterna, coltivando per inevitabile contrapposizione, un sentimento misto di venerazione e odio verso la madre, ritenuta implicata nell’arresto del marito.
Alla sua esperienza carceraria ho già accennato: lascerà definitivamente  il suo paese nel 1955 per “esiliarsi” in Francia (a Parigi) dove coglierà i suoi primi successi letterari.
La sua fama di autore arrabbiato, ossessionato dal sesso  e dalla violenza, si amplificherà ben presto varcando i confini del mondo, e  facendolo così diventare quel “nome di punta” (o meglio di riferimento creativo) a cui  accennavo in apertura.
Il suo debutto nel cinema, di quelli che si possono definire  “col botto”, risale al 1972  con Viva la muerte  (in un’altra ormai remota play comunque presente ancora su questo sito, a conferma dell’interesse suscitato da quest’opera straripante, ho riportato quasi integralmente l’entusiasmo critico di Alberto Moravia pubblicato su L’espresso, testata per la quale lo scrittore era titolare in quell’epoca, della rubrica  cinematografica), che è la brutale esposizione, ripresa e direttamente sceneggiata dal suo preesistente romanzo Baal Babylone,  della vita di un ragazzo dall’infanzia alla giovinezza proprio nella Spagna di Franco. Al di là del lampante riferimento autobiografico che salta immediatamente agli occhi (l’arresto del padre; i rapporti discordanti con la figura materna) l’opera, turgidamente opulenta, può essere davvero considerata ancora oggi, nonostante gli eccessi quasi “orrorifici” di alcuni passaggi, un saggio sul fascismo spagnolo trasfigurato attraverso i  ricordi e i sogni del protagonista,il tutto inserito in un impianto narrativo e figurativo creativamente elaborato, di forte impatto visivo ed emozionale, che si ricollegaal surrealismo (e aBuñuel in particolare) oltre che alla visionarietà esasperata espressa dal cinema estremizzato realizzato praticamente in contemporanea, da Jodorowsky.
Ed ovviamente, il personaggio cardine del racconto, quel ragazzo segnato dagli eventi e dalla vita, è una proiezione ottimamente compiuta di quell’eterno bambino arrabaliano,  disturbato dal senso della colpa e del peccato che lo pervade tutto, ma che rimane ancorato all’innocenza dell’infanzia, immaginaria proiezione di un mondo di  “impossibile” purezza, nonostante le crudeltà che lo attraversano e lo segnano indelebilmente con ferite sempre più profonde. Da una parte dunque (e questa è la costante di tutta la sua opera che ne rappresenta la forza  poetica, creatrice, sovversiva e caotica) c’è l’universo incomprensibile (quasi kafkiano) degli adulti, detentori delle leggi, del potere e dei “codici comportamentali” che si estrinseca in una insopportabile oppressione metodica e organizzata alla quale è quasi inevitabile sottostare. Dall’altra però gli si contrappone  il mondo immateriale e senza tempo, persino creativamente estemporaneo, dell’infanzia, creando così un corto circuito emozionale davvero di straordinaria presa.
Le fonti ispiratrici, le matrici d’elezione, sono tutte perfettamente rintracciabili: oltre ai nomi già citati, vanno annoverati nell’elenco delle suggestioni non solo visive, per lo meno quelli di Valle Inclan e Goya, così importanti nel percorso formativodi quello spaventato bambino ossessionato, ma al tempo stesso affascinato e alla ricerca dei riti magici, grotteschi, erotici, ma al tempo stesso anche mistici e sacrileghi che rappresentano il substrato culturale di una terra ancestrale e bigotta (e la figura della madre nella sua dualità dissonante, è  fondamentale  nella definizione di queste molteplici rappresentazioni contrapposte).
Seguirà, nel 1973, Andrò come un cavallo pazzo, più esplicitamente spinto verso un barocchismo di facciata che vorrebbe completare il percorso della storia, anche se questa volta la materia non riesce a lievitare come sarebbe stato necessario. Non si compie cioè il “miracolo” empatico che aveva reso affascinante (imprescindibile)  il suo precedente lavoro e tutto rimane più “incerto” e indefinibile: l’organizzazione generale non è “perfetta” né impeccabile,  e il risultato finale deborda così davvero un po’ troppo da ciò che era stato definito come il realismo della confusione, si configura in una differente modalità  “interpretativa” che – nelle intenzioni - avrebbe dovuto  aiutare, ma non ci riesce del tutto, a liberarsi dalle ossessioni ancora ricorrenti, non solo trasfigurandole, ma anche coordinandole e rendendole ordinate.  Qui, in ogni caso, Arrabal  ritrova (ma solo a tratti) il senso primitivo del teatro (un po’ alla maniera di Jean Genêt) che gli permette di incunearsi con la libertà dell’improvvisazione dentro la materia “scottante” della storia, che è poi uno degli elementi  indispensabili - quando le cose funzionano come dovrebbero - a creare la “magia” delle immagini che è proprio l’obiettivo, il fine ultimo dello spettacolo cinematografico.
La successiva opera (l’ultima a noi pervenuta), è L’albero di Guernica (1975) che sembra aver trovato una più quieta acquiescenza della forma nella quale stemperare un poco quei furenti “bagliori” un po’ sulfurei precedentemente espressi con tanto vigore. E’ anche quella però che fa immaginare una possibile trasformazione in corso e con la quale Arrabal sembra finalmente disponibile ad abbandonare le parabole “private”  dell’infanzia, per sfruttare più direttamente la vena del fantastico  e del rituale in una proiezione meno autobiografica, ma ancora e sempre  in perfetta sintonia di pensiero non solo con Jodorowsky,  ma anche con lo scrittore Steinberg  e il disegnatore Topor, oltre che con la filosofia del “movimento panico” ai quali tutti questi straordinari “creatori” appartengono di diritto, essendone stati “artefici” e fondatori. 

Playlist film

Viva la muerte

  • Drammatico
  • Francia, Tunisia
  • durata 90'

Titolo originale Viva la muerte

Regia di Fernando Arrabal

Con Anouk Ferjac, Nuria Espert, Mahdi Chaouch, Ivan Henriques, Jazia Klibi, Suzanne Comte

Viva la muerte

E’ senza dubbio un’opera d’arte. Una delle più strabilianti mai viste in vita mia (Pieyre de Mandiargues). Arrabal è ferocemente originale (John Parrack, Rolling Stones). Una delle opere cinematografiche più audaci, parossistiche e artisticamente più riuscite (Amos Vogel, Village Voice).

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Andrò come un cavallo pazzo

  • Drammatico
  • Francia
  • durata 98'

Titolo originale J'irai comme un cheval fou

Regia di Fernando Arrabal

Con Hachemi Marzouk, Nuria Espert, George Shannon, Anouk Farjac

Andrò come un cavallo pazzo

E’ un poema delirante, limaccioso e ossessivo che gronda di sangue, escrementi, polluzioni, insetti, amputazioni, torture, perversioni in oscillazione fra realtà e sogno, disperazione e speranza (Il Morandini)

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