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L'uomo ferito

Regia di Patrice Chéreau vedi scheda film

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La recensione su L'uomo ferito

di spopola
8 stelle

Non ho mai messo in scena i simboli, non so che cosa siano. Io metto in scena le persone, corpi veri; e poi i loro dialoghi, le loro discussioni scrive il regista nel Dialogo su Musica e teatro con Daniel Barenboim. La dichiarazione si riferisce nello specifico alla messa in scena del Tristano e Isotta di Wagner, ma può essere benissimo presa come paradigma esplicativo di una modalità di rappresentazione non solo per quel che concerne la sua attività teatrale tout court (prosa e lirica) ma anche per quella cinematografica, poiché anche lì sembra che Chéreau abbia sempre bisogno di una storia preesistente alla quale ispirarsi, fare riferimento, una storia che faccia prima di tutto da contenitore al dolore, alla paura, alla frenesia dei movimenti che sono sempre elementi centrali della sua poetica, quelli attraverso i quali sembra che stia cercando disperatamente di raggiungere qualcosa di più diretto e profondo, di meno banale, insomma,  capace di toccare le corde più nascoste dello spettatore, per esporlo e “raccontarlo” spesso con impudica determinazione, così da  mettere in evidenza la dinamicità dei rapporti e mostrare prima di tutto dei corpi, dei volti,  e attraverso questi, non solo la loro sofferenza, ma anche la loro essenza interiore.
Quei corpi, quelle presenze animate, quei grovigli di carne e di nervi tumultuosi e frementi, sembrano a volte quasi delle costruzioni scultoree, o dei veri e propri “orgasmi viventi” che come nei quadri di Francis Bacon (o meglio ancora di Lucien Freud)  sembrano essere organizzati  e messi a nudo per rappresentare una umanità devastata in procinto di essere condotta al macello, anche se in lui non ci sono mai “deformità” esteriori o apparenti da esibire, poiché il male, la bestia, si annida spesso all’interno, nella coscienza  e nelle pulsioni.  Basta osservare la sua non sterminata produzione in questo campo, per averne una conferma diretta e immediata (e il cinema in questo caso, è la forma espressiva che meglio delle altre riesce a “chiarire” il senso più estremo del suo discorso: è sufficiente analizzare con la necessaria oggettività di pensiero i conflitti interiori che turbano e condizionano tutti i  protagonisti - maschili  e femminili - che popolano il suo cinema per avere conferma che ci troviamo di fronte soprattutto a corpi in cerca di  un riconoscimento anche gratificante che quando non arriva, porta inesorabilmente alla loro implicita distruzione.
Patrice Chéreau in ogni caso non è mai indulgente (nemmeno con se stesso) quando porta avanti le sue spesso sconfortate indagini conoscitive sull’animo umano. Lui lavora davvero di cesello per estrarre il succo dalle cose, scarnifica parole e immagini per ritrovare l’essenzialità assoluta delle passioni, ed è forse proprio per questo che i suoi personaggi  hanno volti che mostrano sentimenti confusi, come quelli  che si ritrovano nei lavori teatrali di Botho Strauss a partire dagli impressionanti affreschi sulla solitudine e sull'incomunicabilità de La Trilogia del rivedersi (Trilogie des Widersehens) del 1976 con cui il commediografo, al pari di Chéreau, racconta un universo di  angosce e di conflitti, dietro la superficie degli stereotipi borghesi  e scava a sua volta nella realtà dei sentimenti per metterci di fronte alla necessità di un effettivo ritorno a una interiorità in parte smarrita che, per quanto mutilata e martoriata, è pur sempre un qualcosa che può aiutare a  contenere quello che normalmente viene definito “le mal du vivre” . Così anche Chéreau diventa, al pari del commediografo, il cantore della solitudine moderna, dell'incomunicabilità degli esseri  (anche quando tratta temi del passato come ne La reine Margot da vedere assolutamente in versione integrale e non in quella un po’ addomesticata passata sui nostri schermi), si conferma colui che più di altri è capace di rappresentare davvero la confusione dei sentimenti, che esprime spesso  con un romanticismo a volte un po’ malato ma che trova ispirazione e radici in un quotidiano trasfigurato in modo quasi mitico, dove le figure che animano le storie da lui prese in prestito, sono sempre in affanno, corrono e si muovono alla ricerca di qualcosa che non trovano, sono sempre insoddisfatte e incerte, e si inseguono per questo con il fiato corto  e il respiro ansimante (è evidentemente una metafora, ma rende abbastanza bene l’idea che intendo trasmettere)  per le vie e le piazze delle città, nei cunicoli sconosciuti delle stazioni, nei corridoi infernali e nelle  sontuose sale dei castelli, nelle segrete delle fortezze o dei manicomi, o negli squallidi scorci  inquietanti dei gabinetti  maleodoranti che sembrano diventare nel suo cinema qualcosa di simile a veri e propri labirinti di perdizione.

Ti aspetto col buio, nel buio… 
 sintassi estrema 
prima di morire, morire.
Unica parola vietata, sincope, 
deragliata, la fine, di tutto…
 
L’homme blessè del 1983 – in cui si ritrovano più o meno tutte le tematiche angoscianti enunciate nella premessa - è uno dei risultati più inquietanti e sconvolgenti di tutto il suo percorso artistico,  giustamente considerato un film che ha ascendenze di riconoscibilità molto particolari e specifiche che lo collocano non solo nelle vicinanze di Genet, ma anche di Pasolini, ma è semplicemente una affinità di mondi e di rappresentazioni quella che li accomuna, poiché la sceneggiatura e poi il film che la traduce in immagini, traggono origine  diretta da un libro al quale Chéreau ha lavorato per ben sei anni con Hervè Guilbert (Parigi, 14 dicembre 1955 – Clamart, 27 dicembre 1991), giornalista di “Le Monde”, fotografo  e scrittore che ha coraggiosamente distillato in pagine essenziali e crude, il suo calvario di giovane ammalato di AIDS quando ancora la malattia non lasciava speranza alcuna, e che  fu  uno degli amici più stretti di Michel Foucault, Isabelle Adjani e Sophie Calle.
E’ allora importante  a mio avviso definire proprio il suo rapporto con Chéreau e l’influenza diretta da lui avuta  anche in relazione a ciò che si racconta ne l’Homme blessè non solo facendo riferimento al suo tragico percorso esistenziale (che lo condurrà a una prematura, dolorosissima dipartita: nel 1990 rivelò coraggiosamente la sua sieropositività nel romanzo Á l’ami qui ne m’ha pas sauvé la vie [All’amico che non mi ha salvato la vita] primo di una trilogia composta anche da Protocole compassionnel [Le regole della pietà] e da L’Homme au chapeu rouge [L’uomo dal capello rosso], libri ed esperienze che gli daranno una visibilità e una conoscenza molto più vasta verso il pubblico fruitore, e con le quali descriverà quotidianamente e “crudelmente” la progressione della sua malattia sulla quale ha lasciato anche una terribile documentazione fotografica del suo corpo in graduale disfacimento  e un impressionante documento cinematografico realizzato con la produttrice  Pascale Breugnot  una settimana prima della sua morte), ma anche alla specifica, particolarissima tipologia  della sua scrittura  che anche prima di documentare questa esperienza estrema, si nutriva  essenzialmente  di spunti autobiografici che tendevano a una specie di “autofiction” (o “confessione pubblica” più traslata e indiretta) e nella quale evidentemente si riflettono anche i fatti di questa storia “al limite” che narra della relazione omosessuale tra un adolescente proveniente da una famiglia piccolo borghese e un uomo maturo, e mette in scena una umanità che sembra non avere diritto ad alcuna redenzione, perché qui l’omosessualità è ancora “dannazione” (e non è evidentemente una posizione morale o ancor peggio “moralistica” quella che viene espressa, ma bensì una “constatazione” oggettiva esente da giudizi ma realisticamente calata in un clima di consapevolezza oggettiva per come ancora in quegli anni veniva considerata  anomala questa condizione di “dichiarata diversità”), e gli anfratti della stazione e del luna park che fanno da sfondo alla vicenda, sono connotati come  ambienti sordidamente squallidi dove il contatto produce violenza, una violenza anche estremizzata che nel rito classico dell’iniziazione maschile a una particolare tipologia di sesso,  stabilisce  con precisione le regole del gioco, rese estreme dai disperati bisogni di una sessualità negata che non lascia scampo alla preda, e che genera inesorabilmente una lotta all’ultimo sangue fra le due parti in causa, evidenziando così in tutta la sua drammaticità l’effettiva impossibilità di scegliere o di prendere una strada diversa, visto che si instaura sempre in questi casi una sottile relazione di reciprocità e interazione costante che si stabilisce all’interno di un legame in cui, necessariamente, il dominato e il dominatore sono alla fine sempre ampiamente collaborativi e interscambiabili, una condizione di “dipendenza” reciproca  che costituisce appunto l’elemento fondante (oserei dire il cardine) di quelle pratiche anche estreme all’interno delle quali ogni azione non può essere vissuta che come un gioco ritualizzato scandito da precise regole, e dove non è mai possibile stabilire con assoluta certezza, chi è in effetti colui che tiene le fila, se la vittima o il carnefice.
 
Perché la sera
mette nostalgia
di cose abbandonate
ormai perdute,
come se in fondo
ad ogni cuore
con il buio della notte
come fantasma
della vita intera,
torna il ricordo
e illumina
tremula fiammella di candela… (Mary Bertino)
 
Il film sviluppa dunque  rendendola esplicita, la dialettica tra la passione sincera di un 'adolescente inquieto e il freddo e un pò algido cinismo dell'uomo maturo che senbra essere incapace di ogni redenzione: Henry, insoddisfatto giovane di buona famiglia scopre la sua passione per un altro uomo più anziano di lui (John) che frequenta ambienti sordidi e conduce una vita poco edificante. La scoperta della propria omosessualità da parte di Henry non è disperata, solo “disturbata” dall’oggetto speciale del suo desiderio incontrato nei gabinetti pubblici olezzanti  dell’acre odore della trielina, e suggellato da un travolgente “bacio” che non solo legherà indissolubilmente i loro destini, ma lo farà diventare a sua volta “prostituto” per amore in un crescendo parossistico verso la definitiva perdizione.
Chéreau rappresenta dunque con crudezza e realismo la relazione tra questi due uomini e rappresenta con altrettanto vigore espressivo gli ambienti nei quali avvengono gli incontri omosessuali (la stazione ferroviaria, i gabinetti  e il suo milieu equivoco di luoghi e di occasioni) con tutto il sottobosco che ci gira intorno. 
Le scene d’amore, gli amplessi “feroci”, sono rappresentati senza troppi veli e censure, perché altrimenti sarebbe stato difficile trasmettere il senso infuocato di una relazione forse impossibile, ma concretamente carnale. L’attrazione compulsiva, la dipendenza e l’incertezza, la paura e l’eccitazione sessuale sono dunque espressi in modo palpabile ed eloquente, ma senza alcun sospetto di sotteso voyeurismo: il film è davvero importate e coraggioso, un’opera con la quale il regista ha corso volutamente il rischio di essere considerato persino  e soltanto “scandaloso”,  oltre che "gravemente lesivo" della morale, e si è visto per questo precludere molti mercati, compreso quello italiano (è da noi transitato soltanto in Tv a notte fonda, grazie a Grezzi e al suo “Fuori Orario”).
Ma L’Homme blessé  (se ci liberiamo dei pregiudizi)  ha il pregio di trasferirci  in una  “dimensione” un po’ estrema fatta di nostalgia e desiderio: corre  oscuro e sinistro su questi binari avvolgenti, diventa quasi agghiacciante premonizione di morte in alcuni momenti, tanto che potremmo osservare che siamo anche qui dalle parti di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, perché l’umore, l’emozione, e il senso del “proibito”, del “non ammesso”, corrono sulla stessa linea, mantengono la stessa altezza, magari ancora più “torbida” per la connotazione tutta al maschile che ne deriva. Film come si è visto  fortemente intriso di passioni estreme, ha al suo attivo anche un crudo, violento finale che è commovente e inquietante al tempo stesso.
I francesi lo hanno compreso e apprezzato, tanto che è stato a suo tempo insignito del massimo riconoscimento di quella ciraggiosa ccinematografia - il César - perché se l’atmosfera e il clima che si respirano nel film, come si è già visto e detto, sembrano mutuati direttamente dai romanzi maledetti di Genet, come in quei capolavori assoluti, anche qui l’umanità profonda dei personaggi riscatta alla fine qualsiasi abiezione.
Splendida e coraggiosa prova  di tutti gli attori coinvolti, a partire da un Vittorio Mezzogiorno superlativo che ci ha regalato, nel disegnare il contorto, disperato, solitario, ambiguo personaggio che è stato chiamato a rappresentare, forse la sua migliore interpretazione in assoluto e non ha avuto alcun timore i remora nel mettersi letteralmente “a nudo”. Non di minore rilevanza però la prova di un ancora giovanissimo Jean-Huge Anglade, che riesce ad esprime perfettamente tutta la sotterranea irrequietezza di una età singolarmente complessa e piena di tentazioni carnali. Roland Bertin, un altro maturo omosessuale un po’ sordido, è il terzo incomodo della storia. Accanto a loro, Liza Kreuzer,  Claude Berri,  Gérard  Desharte e  Armin Müller-Stahl.

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