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Il brigante

Regia di Renato Castellani vedi scheda film

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La recensione su Il brigante

di spopola
8 stelle

Bellissimo, anche se parzialmente irrisolto. Sospeso fra il melodramma romantico e passionale e la novella avventurosa che ha il sapore dell’inchiesta, è lo straordinario affresco di un’epoca che narra una storia spesso raccontata, ma raramente con questa intensità (un Castellani tutto da riscoprire insomma).

 

Il brigante (sceneggiato dallo stesso Castellani) è un’intensa e coraggiosa trasposizione in immagini del romanzo omonimo scritto nel 1951 da Giuseppe Berto (che si era a sua volta ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto in Calabria nel secondo dopoguerra del secolo scorso)

.

Il film (che Lino Miccichè sull’Avanti  definì a suo tempo  “Il primo apprezzabile film contadino fatto in Italia”) è ambientato negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale e racconta la storia del giovane Michele Rende, diventato bandito suo malgrado (ma su questo torneremo a parlare un po’ più avanti).

Vista la notorietà del regista che un po’ di anni prima si era aggiudicato un Leone d’oro con il discusso e discutibile Giulietta e Romeo, il film passò anche in concorso (ma con scarso successo) dalla Ventiduesima Mostra di Venezia dove si aggiudicò comunque un premio fra quelli minori (il Premio Fipresci)) ma senza suscitare grandi entusiasmi. Ricevette solo qualche tiepido attestato di stima e niente più, ma col senno di poi, si potrebbe benissimo imputare questa freddezza al fatto che il regista aveva scelto una modalità di rappresentazione vicina al melodramma etnico di matrice popolare (e questo potrebbe sembrare addirittura un paradosso rispetto a quello che dirò più avanti) poco di moda in quel momento. Dunque per la critica accreditata dell’epoca, la “colpa” (se così si può chiamare) fu da addebitare tutta a Castellani che aveva voluto girare un film in assoluta controtendenza (o per meglio dire ancora “fuori tempo massimo”) e questo fu sicuramente il pregiudizio che ne generò l’insuccesso perché fu davvero poco capito e ancor meno apprezzato..

Pagò di conseguenza il prezzo di aver realizzato un film con un  impianto troppo tradizionale che sembrava voler andare in direzione opposta ai fermenti (anche innovativi) che invece si agitavano  all’interno del nostro cinema d’autore, in un periodo che ricordiamo ancora come uno dei più fecondi, e proprio per questo, pieno di capolavori immortali (Salvatore Giuliano di Rosi per esempio, fu girato quasi in contemporanea e con la sua rivoluzione anche lessicale, non poteva che rubare la scena e oscurare questa pellicola indubbiamente interessante ma priva di sostanziali innovazioni anche formali).

Rivisto ai giorni d’oggi invece, scevri da confronti diretti, se ne rivaluta molto il  valore che non è solo quello documentale (la testimonianza diretta e appassionata di un’epoca così martoriata  che rischia di essere dimenticata). Non è ovviamente un’opera esente da difetti ma a mio avviso, questi sono ampiamente compensati dai pregi che sono davvero tanti.

 

Entrando nel concreto, Il brigante   copre, racconta e documenta, un’epopea lunghissima e complessa che si sviluppa attraverso  un variegato e travagliato percorso narrativo la cui durata  nella versione originale passata da Venezia, era di 180 minuti (ridotta poi  a 143 per la sua circolazione in sala) e questo fu sicuramente l’altro elemento che raffreddò parecchio i possibili entusiasmi che per più di una ragione, in un altro contesto, un’opera di siffatta natura avrebbe anche potuto suscitare.

La sua  lunghezza fu considerata infatti verbosa ed eccessiva dai più, ma adesso, ai nostri occhi, risulta al contrario assolutamente necessaria perché solo cosi il regista poteva  rendere tangibilmente palesi le ambizioni epiche che aveva riposto in questo suo lavoro, sviluppato mettendo in scena episodi e sequenze di ampio respiro che formano il tessuto di una rappresentazione corale delle cose che è di fatto un vero e proprio ritorno (un po’ tardivo) alla leggendaria lezione del neorealismo (certamente qui riletta in una forma un po’ più accademica e manierata, ma comunque altrettanto valida e coinvolgente) che Castellani ripropone con assoluta competenza e dedizione e che a me sembra  particolarmente funzionale per la sincerità e la commozione che contiene e che ben trasmette allo spettatore. Il tutto, amplificato da un paesaggio  barbaro e crudele molto suggestivo che fa da giusta cornice a questa storia carica di autenticità che è servita al regista per raccontare il tragico destino di un mondo contadino scoraggiato, deluso e soggiogato e la disperata  lotta che soprattutto il nostro martoriato sud ha dovuto ingaggiare per rivendicare la necessità (e il bisogno) di raggiungere l’emancipazione e il riscatto da un’atavica sudditanza di povertà negletta fatta di rifiuti e coercizioni prima  per colpa del  fascismo, ma poi ripresa (e quasi amplificata) con poche variazioni, dalla neonata Italia repubblicana che tradì molte delle sue promesse.

Se leggiamo bene gli avvenimenti che il film racconta, si potrebbe infatti rilevare che ben prima de Il Gattopardo  qui si veicola una tesi (e una constatazione) che  emerge prepotente proprio nel compiersi di questo dramma della povertà, e cioè che fra il prima e il dopo anche se in apparenza è cambiato tutto, le cose sono rimaste perfettamente uguali ( e mi riferisco per esempio allo sfruttamento dei braccianti e le terre che anche dopo la liberazione rimasero ancora per lungo tempo d esclusivi proprietà dei latifondisti con poche, piccolissime eccezioni).

 

Il film che rappresenta un vero e proprio spartiacque nella carriera del regista, fu realizzato fra mille  difficolta in oltre dieci mesi di lavoro  ed è interpretato seguendo le linee codificate proprio dal neorealismo, e quindi utilizzando pochi attori professionisti attorniati da un folto stuolo di persone prese direttamente dalla strada, e questo a partire dal suo protagonista, Adelmo di Fraia che di professione faceva il pescatore.

L’immeritato insuccesso della pellicola anche nel suo passaggio in sala (che ripagò a malapena le spese di produzione), causò un forte dolore a Castellani che proprio a causa di questo fiasco commerciale, fu costretto, nella fase successiva del suo percorso artistico, a ridimensionare notevolmente le sue ambizioni autoriali e a ripiegare spesso su produzioni più ordinarie e meno significative.

 

La storia (che ha come sfondo la Calabria e copre un periodo temporale abbastanza lungo che va dalla fine degli anni ’30 a quelli immediatamente successivi alla liberazione) è raccontata in prima persona da Nino (Francesco Seminaro) che assiste, più o meno consapevolmente, ai cambiamenti che avvengono davanti ai suoi occhi e ai quali, nonostante la sua giovane età, finirà per prendere parte attiva insieme a sua sorella Miliella (Serena Vergano) e i loro genitori.

L’eroedel ragazzo è Michele Rende, un giovane paesano che non intende accettare le regole non scritte saldamente protette dal fascismo, imposte dai baronati e dai latifondisti proprietari delle terre.

Rende si oppone al potere dei padroni non tanto per una convinzione ideologica (che forse in quelle terre dimenticate da Dio e dagli uomini era ancora da venire) quanto invece per un istintivo bisogno di giustizia oltre a  una  profonda sete di libertà, due principi per lui assolutamente primari e irrinunciabili che piano piano contagiano anche Nino che in famiglia ha invece un padre debole e acquiescente.

La lotta di Rende (accusato di un delitto che non ha commesso) è comunque solitaria e poco produttiva poiché e costretto a muoversi dentro a una realtà ancora condizionata dal clima di paura imposto dal regime.

Sarà solo dopo l’8 settembre che il giovane, inebriato da quel soffio di libertà riconquistata, penserà che si siano create condizioni più propizie per provare a risvegliare le coscienze degli abitanti della zona che lo porterà a cercare l’occasione (nella fattispecie, l’occupazione delle terre incolte rimaste di proprietà dei latifondisti) per arrivare finalmente a gettare le basi per un e riscatto sociale suo e dei suoi vessati concittadini.

L’inizio è entusiasmante ma ben presto le forze dell’ordine (sempre e solo dalla parte dei padroni)  fermeranno con la forza questa piccola rivolta.

A  Rende allora, di nuovo braccato dalla polizia, non resterà altra soluzione che quella di darsi alla macchia e finirà così per cucirsi  addosso suo malgrado, le vesti (e il ruolo) del brigante vendicativo… e ovviamente (come da copione) il finale sarà tragico.

Questo però è solo il canovaccio che riguarda soprattutto la storia principale poiché Castellani dice molto di più fornendoci l’istantanea di una realtà in movimento piena di tante figurine tutt’altro che marginali, disegnate con perizia e perspicacia.

Insomma la sua bravura sta proprio nella  maniera con cui riesce a raccontare - fra dramma e commedia del quotidiano - la vita di questa comunità piena di contraddizioni e di paura che il trascorre del tempo e l’inesorabilità degli eventi, trasformerà in vere e proprie insanabili fratture. Ed è davvero molto interessante vedere come il regista è capace di trovare sempre il giusto  equilibrio nel dosare le varie storie che animano questo racconto mantenendolo però sempre lontano dalla retorica di una storia a  tesi . Dentro infatti non si trovano che minime tracce di uno schematismo  ideologico che fatalmente avrebbe potuto far scivolare il tutto verso la deriva di una sterile denuncia fine a se stessa.

Qui sono soprattutto le immagini a  fare la differenza insieme alla generosa  partecipazione attiva degli attori che rendono vivo (e se vogliamo anche attuale) , il tessuto narrativo poiché le ingiustizie, le vessazioni, sia pure in un contesto ormai molto diverso, sopravvivono purtroppo ancora ai giorni nostri.

Castellani insomma è ammirevole per come riesce  a trovare un miracoloso equilibrio fra due istanze che convivono entrambe nel suo film: da una parte le tante pagine anche aneddotiche quasi da documentario antropologico e dall’altra il  substrato politico che affiora prepotente dalla carne e il sangue dei suoi personaggi (quasi da melodramma ottocentesco), tutti davvero indimenticabili: dal bracciante Pataro (che oggi potremmo definire bonariamente una specie di sciupafemmine) che piace alle donne e può permettersi il lusso di due pseudo-mogli e di chissà  quanti figli sparsi nel vicinato, che col suo ingenuo raziocinio appare il personaggio più commovente del film, all’appuntato dei carabinieri che, per troppa sensibilità verso l’umana sofferenza, viene alla fine allontanato dall’arma e privato della pensione e arrivare così  a quello della sorella di Nino  (forse il’ più scontato e prevedibile) che non può non finire per innamorarsi del brigante fino a condividere con lui anche la sua sorte.
E tutto questo viene sostenuto da Castellani con una messa in scena rigorosamente geometrica ma anche piena di invenzioni visive particolarmente convincenti. Cito fra tutte quella in cui la polvere e il terriccio svolazzano sulla piazza del paese mosse dal vento che quasi le disperde mentre nei campi il potere, qui rappresentato dalle le forze dell’ordine, domina e spazza via la timida rivolta dei contadini (una similitudine davvero molto efficace).

E poi c’è da citare ancora il felice utilizzo  della cinepresa perchè qui ogni movimento di macchina (dai carrelli laterali a quelli in avanti) ha un suo senso oltre a un preciso valore anche simbolico. Uno fra tutti? Il magnifico carrello laterale (attenzione: SPOILER) che, nel pre-finale, precede Michele Rende e la sua donna braccati dalla polizia che, grazie al punto in cui è stata  posizionata la cinepresa, ci consente di vedere (e soprattutto di capire) come i due stiano letteralmente fuggendo quasi in bilico sull’orlo del precipizio, una sequenza che anticipa magistralmente l’arrivo dell’inevitabile carneficina finale che qui sembra essere davvero l’unica soluzione possibile per un uomo (e un popolo) a cui è ormai negata ogni altra possibile via di fuga.

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