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Il grande cocomero

Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il grande cocomero

di hallorann
10 stelle

Il minimalismo è uno stile, un genere, una branchia della commedia all’italiana sorta nel decennio degli ottanta, anni di riflusso e di torpore sociale, politico e anche cinematografico. Dopo i movimentati e creativi settanta era inevitabile, quasi un calo fisiologico accelerato dal boom delle televisioni private che hanno sostituito nell’immaginario collettivo tutto ciò che rappresentò il grande schermo. Etimologicamente per minimalismo si intende la “tendenza a concentrare gli spazi su obiettivi minimi e realistici” oppure “corrente della letteratura americana degli anni ’80 che utilizza uno stile conciso e aderente al linguaggio parlato, per descrivere la realtà quotidiana”. Al cinema tradotto significa analizzare un tema da un’ottica ridotta, familiare, intimista, “due camere e cucina” come disse sarcastico Nanni Moretti in CARO DIARIO, mantenere un profilo basso da ogni punto di vista. Negli anni ’90 si è arrivati a una saturazione come avviene ciclicamente per tutti i generi, oggi è un demone da evitare ma prima o poi verrà rivalutato. Sono tanti gli sceneggiatori e i registi che hanno fatto minimalismo, molti sono naufragati quasi subito, le meteore non si contano, alcuni si sono riciclati altri sono sopravvissuti. Tra gli altri è il caso di Giuseppe Piccioni, il quale sembrava definitivamente arenato per riprendersi in parte con le ultime due opere; Peter Del Monte è stato il precursore, il battitore libero e appartato del genere; si barcamenano come possono i più talentuosi Silvio Soldini e Francesca Archibugi. Entrambi hanno firmato dei piccoli capolavori del genere, Soldini con i primi film degli anni novanta e con l’ultimo sottovalutato IL COMANDANTE E LA CICOGNA; lei ultimamente pare essersi persa ma è con IL GRANDE COCOMERO che ha raggiunto la piena maturità artistica, il perfetto equilibrio tra dramma e commedia nel raccontare il mondo infantile rapportato con quello adulto.

 

Arturo è un neuropsichiatra infantile quarantenne che lavora in un policlinico romano, accoglie nel suo reparto la problematica Pippi, una dodicenne afflitta da un complesso caso di epilessia. Il neuropsichiatra sperimenta una terapia alternativa sulla piccola costruendo un confronto schietto e sincero fatto di conflitti, gratificazioni, delusioni e affetto. Entra in contatto anche con la famiglia, una coppia di borgatari superficiali e in crisi, vera causa della malattia di Pippi, per Arturo lei diventa “un motivo valido per alzarsi l’indomani” sanando in parte anche le sue ferite personali. Un ulteriore punto d’incontro tra i due è dato dal Grande Cocomero, la zucca della notte di Halloween che nelle famose strisce di Schulz Linus e Charlie Brown attendono invano nell’orto coi cactus e nella cocomeraia sotto la pioggia; il racconto del fumetto amato da Arturo e regalato a Pippi è la metafora dei sogni di bambino divenuti utopia da adulti.

 

IL GRANDE COCOMERO è un’opera di rara sensibilità e tenerezza, un felice connubio di asprezze e ironia, di commozione e dura realtà sapientemente dosate e amministrate dalla Archibugi. Il suo maggior pregio è sempre stato quello di saper scrivere e dirigere storie con protagonisti bambini o adolescenti con sullo sfondo il mondo degli adulti, lo sguardo innocente, vivido e curioso dei piccoli che stride con quello maturo e apparentemente sicuro dei grandi. La figura di Arturo - ispirata al neuropsichiatra-scrittore Marco Lombardo Radice prematuramente scomparso nel 1989 - è ben delineata dalla stessa regista/sceneggiatrice e resa ancora più vera dall’ottimo Sergio Castellitto, a suo agio nei panni di un uomo refrattario ai carrierismi che considera il proprio lavoro una missione, una croce da portare quotidianamente con umiltà e abnegazione e arricchito dall’attore romano di tante piccole sfumature. Il personaggio di Pippi è interpretato benissimo dall’esordiente Alessia Fugardi, la quale rende molto credibili le contraddizioni e le difficoltà del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Nel carnet degli attori ci sono molte belle prove come l’insicura madre di Anna Galiena, la ruvida infermiera di Laura Betti, i piccoli ma significativi ruoli di Lele Vannoli e Riccardo Zinna e soprattutto il rassicurante e delicato don Annibale del compianto Victor Cavallo, bizzarro attore dei teatri off romani tenuto a freno e valorizzato dalla Archibugi in alcune sue pellicole. Degne di rilievo le malinconiche musiche dei jazzisti Roberto Gatto e Battista Lena che sottolineano e rinforzano il pathos della vicenda. Vent’anni dopo molte scene colpiscono ancora al cuore per le forti emozioni che riescono a trasmettere: il personaggio di Marinella, LA DONNA CANNONE di De Gregori cantata per lei o l’omelia di don Annibale etc. Ecco un esempio di minimalismo di alto livello.

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