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Il cacciatore

Regia di Michael Cimino vedi scheda film

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La recensione su Il cacciatore

di lamettrie
10 stelle

Uno splendido film, molto profondo e sincero ed emozionante. Ha qualche pecca, ma lascia l’idea che il suo regista fosse in stato di grazia quando l’ha girato. Per la fotografia, e in generale sotto il profilo estetico, è una pellicola ineccepibile.

E’ un’autentica opera verista: fa capire pienamente il messaggio soltanto mettendo in scena dei fatti e lasciando trasparire le emozioni dei personaggi, ma senza che siano offerti dei commenti o una linea interpretativa esplicita. Eppure il messaggio, appunto, passa in modo chiarissimo: è la contestazione della guerra, che passa attraverso la rovina che essa fa delle vite di persone che non hanno colpe particolari.

I soldati sono tutte vittime, e non meritano quello che di terrificante subiscono. La retorica patriottica è qua smontata con evidenza, per fortuna. Il film trasuda umanità autentica, e ha a che fare con le persone semplici, quelle in cui nessuno farebbe troppa fatica ad identificarsi almeno in parte. L’idea dello sviluppo è felicissimo: si parte dalla vita normale, piena di lavoro e fatica ma anche di aspettative felici, quella vita che viene mostrata prima della guerra; si conclude con il dopo-guerra, con le vite devastate dalla guerra: chi con la malattia mentale, chi con la disabilità, chi riesce a superarla facendo appello a grandi risorse interiori (il solito De Niro, qui immenso, in una parte che sembra tagliata su di lui). A falciare queste vite innocenti è la guerra, ma è chiaro che questa non avviene per caso. Il film non mostra mai allusioni ai motivi della guerra, perché vuol mostrare soprattutto come coloro che vi partecipano sono vittime innocenti; ma è evidente la critica a chi ha voluto la guerra per il suo potere (come in altri grandi film contro la guerra americana in Vietnam, come Apocalypse now e Full metal jacket).

Notevole è l’utilizzo della prassi delirante della roulette russa: la guerra conduce a ciò, l’irrazionalità (o, per meglio dire, la disumanità della guerra, dato che molti hanno tratto dei vantaggi dalla guerra tramite l’uso sofisticato della loro ragione) della guerra porta tutti i coinvolti a vedere la propria vita appesa a un filo, a causa non certo solo del caso, ma soprattutto del sadismo e dell’odio di alcuni. Il film non mostra qui buoni e cattivi, anzi eccede nel demonizzare i vietnamiti come bestie sadiche e stupide: ma il sospetto di un filo americanismo è fugato, come già detto.

In questo contesto radicale, dove ci si gioca la vita e la morte, dove l’uomo è chiamato alle risposte più decisive, in questo contesto esistenzialista (ben calato nelle situazioni concretissime che potrebbero coinvolgere chiunque, e hanno già drammaticamente coinvolto qualcuno: ciò che il film mostra è storia, non è fantasia), notevole è la trattazione dell’amicizia. De Niro la interpreta da gigante, e l’amicizia appare quel filo fragile che pure permette l’alleanza tra gli uomini che in fondo sono in parte vittime della realtà, grande o piccola parte che sia: con tale alleanza, l’amicizia appunto, tali uomini trovano un grande motivo di speranza nella vita.

Il titolo è il Cacciatore: potrebbe essere fuorviante, dato che non è certo la caccia la protagonista del film. Lo è in senso indiretto, perpetrata da uomini che devono uccidere per sopravvivere. Ma il dettaglio che forse più mi ha colpito del film è la delicatezza con cui, al ritorno dalla guerra, De Niro rifiuta di uccidere il bello, innocente cervo, vittima ormai designata: non lo uccide proprio per un senso di “umanità”, che gli ha fatto odiare ogni forma di violenza verso gli esseri senzienti. Questo larvato pacifismo è il messaggio ultimo del film.

Certo, non possono essere taciuti i difetti, seppur pochi rispetto all’eccezionale valore complessivo di quest’opera d’arte. Oltre alla sottintesa critica anticomunista dei vietcong stupide bestie, cui si accennava (qui in gran parte sbagliata: i vietnamiti lottavano per la libertà contro gli oppressori americani), i dettagli della prima delle tre parti (prima, durante e dopo la guerra) sono troppo lunghi. Il matrimonio è inutilmente particolareggiato. Troppo lunga, sempre nella prima parte,  è anche l’attenzione per i personaggi maschili, che appaiono quello che sono, degli stupidotti americani medi: appena finito di lavorare a oltranza, non sanno far di più che ubriacarsi e dire sciocchezze. Il livello culturale medio è quello degli ultrà della curva italiani. Forse anche per questo cameratismo al maschile  il film è molto apprezzato in Italia. Comunque è evidente questo in merito: Cimino non usa personaggi semi-derelitti, che possono appartenere indistintamente alla maggioranza della popolazione, perché non sa elevarsi sopra il loro livello. Semmai li usa per far vedere come persone semplici vengono rovinate dai cosiddetti grandi della storia, che li usano come pedine per i loro interessi. Questa infatti è soprattutto un’opera di denuncia verista.

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