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Silence

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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Badu D Shinya Lynch

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La recensione su Silence

di Badu D Shinya Lynch
10 stelle

Silence

o Silencio.

 

Silence è uno di quei monoliti neri presenti nel film di Kubrick, giunto fin qui, quasi 50 anni dopo.

 

Un'unica visione, che parte da quel monolito nero, passando per Mulholland Drive, fino ad arrivare a Silence.

 

Tre le pellicole come forme che ritornano: il monolito nero [2001: aspace Odissey],  la scatola blu [Mulholland Drive], il crocifisso [Silence]. Forme come porte d'ingresso (o d'uscita) per realtà-altre. Portali che conducono verso "dimensioni-aliene", come contact con qualcosa di extra-ordinario.

 

Liam Neeson

Silence (2016): Liam Neeson

 

Come un'ossessione. Era da non so quanto tempo che non scrivevo tralasciando l'uso del registo impersonale. Forse dai tempi di Mulholland Drive. Ecco, ora sento la necessità di scrivere in maniera fluida, viscerale, scomposta. Irrazionale. Proprio perché non ce la faccio a razionalizzare la visione. A razionalizzare ciò che ho visto. E, soprattutto, ciò che ho sentito. Proprio perché il film di Scorsese mi ha riempito, ed io devo in qualche modo liberararmi. Svuotarmi. Sfogarmi. Quasi come fosse una confessione. Una confessione di chi non si sente all'altezza. Ho assistito a qualcosa che è più grande di me. Perché SIlence è un'opera di una profondità e di una complessità disarmanti, quasi inaccettabili. E ci si sente superficiali dinnanzi a tutta questa immensità contenutistica, linguistica, storica, culturale, cinematografica. Sì, perché Silence è un film che disinnesca le certezze intellettualistiche dello spettatore. Un lavoro che disarma. Perché l'ultima fatica di Scorsese è una stimolante sfida intellettuale e spirituale. Dobbiamo, quindi, forse, riconsiderare la nostra "cultura spirituale". La nostra visione del mondo. Dobbiamo lavorare su noi stessi. Sul nostro silenzio. Quel silenzio universale. Del Cinema. Della storia. Del cristiano. Dell'ateo. Del mondo. Ecco, quindi, che Silence è anche uno stupefacente lavoro metacinematografico sul silenzio. Insomma, Silence è un film di un'intensità bruciante. Un'esperienza totalizzante che arde nello schermo, nello spettatore. Nel cuore di entrambi. E forse non ero pronto a tutto ciò. Ho peccato di presunzione inconscia. Di superficialità. Ecco perché la pellicola di Scorsese invita lo spettatore a riconsiderarsi. A ridimensionarsi. Sì, Silence è un'opera ridimensionante. Che spinge a porsi delle domande. Non tanto sulla propria fede religiosa, quanto piuttosto sulla fede in se stessi. Sulla fede nella conoscenza. Nella conoscenza di noi stessi, ancora, e di ciò che ci sta attorno. La conoscenza del mondo, nel mondo. Silence è l'atto di fede di Scorsese. Un atto di fede che si riflette nello spettatore. Un atto di fede in senso lato. Su tutto. Che ti fa sentire piccolo. Sprovvisto. Inadatto. Che ti invita, ancora, ad agire sul silenzio, dopo che esso ha agito su di te. Perché galvanizza l'anima, lo spirito, la mente. E noi ci confessiamo, quindi. Perché non ne siamo all'altezza. E ci manca qualcosa. Necessitiamo di sapere. Capire. Sentire. Un impossibile documentarci. Abbiamo peccato inconsapevolmente di presunzione verso noi stessi e verso tutti. Verso tutto. Soprattutto verso il Silenzio. C'è un qualcosa che ti invita quasi a inginocchiarti, in quest'esperienza. Scorsese ti invita a rispettare il Cinema. A rispettare il silenzio., la sofferenza. Ecco: silenzio, sofferenza. Silence è un film dalle tematiche universali, pulsanti! Vive!

Non riesco a parlare del film, perché non ce la farei; sto piuttosto blaterando sul film. Perché dentro, no, non sono in grado di entrarci. Di penetrarlo. Mi sento inadeguato. E questa inadeguatezza funge da spinta propulsiva per l'anima e per la mente. Da spinta propulsiva per agire su se stessi. Forse, sì, in silenzio. E il film di Scorsese è una sorta di possibilità. Ad elevarsi. Temprare lo spirito e l'intelletto. Capire cosa (ci) è successo. Prendere il potenziale della sofferenza - filmica ed extrafilmica - ed utilizzarlo a nostro favore. Per migliorarci. Per capire. E quindi agire in silenzio, sul silenzio, di nuovo. Per (ri)scoprire se stessi. Prendere questo martirio filmico come processione d'intenti potenziali. Perché Silence è un riflesso di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere. Silence è un'occasione. Un film che rivela allo spettatore chi è e chi potrebbe essere. E soprattutto quanto è piccolo. Che sia esso cattolico, buddhista o ateo. Ma è prima di tutto umano. Lo so, sto farfugliando, ma questo film è davvero troppo grande. Inarrivabile.

Probabilmente dovrei prendere ogni lista da me stilata riguardante i migliori film del millennio e cancellarla. Modificarla. Perché, appunto, ora è arrivato Silence. E tutto cambia. E dopo più di 24 ore dalla visione continuo a farfugliare, a non avere parole. A non aver voglia di vedere nient'altro. Ancora a non parlare del film, ma sul film. Alla rinfusa, tra l'altro. In maniera disordinata. Perché Silence è una visione totalizzante. Destabilizzante. Gloriosamente destabilizzante. E illuminante. Una pellicola intimista destinata a crescere nel tempo. A bruciare dentro.

E Padre Rodrigues come un One Eye gentile che guida - in senso lato - chi ha bisogno d'aiuto, attraverso la nebbia, la foresta, il fiume, la luna pallida d'agosto, la pioggia, il fango, e ci si sporca e ci si sente sudici, si arranca, perché si sa che in questo mondo che è un terreno paludoso è difficile essere un Dio. Ed è difficile far "germogliare" qualsiasi cosa in quel Giappone del 1600. Impossibile portare le proprie idee. Impossibile scappare, quindi. Impossibile correre. Fuggire! Run! o Ran! Perché tutto va a rilento. E si rimane intrappolati. Incastrati. Come è accaduto a Ferreira. Come è accaduto a Kurtz in un altro genere di apocalypse spirituale ed esistenziale. Ed anche Padre Rodrigues rimane impigliato. Forse per sempre. Forse mai veramente. Ecco, "forse mai" perché quel feto stellare scorsesiano invita lo spettatore a proseguire il viaggio (dentro se stesso) - si ha la sensazione finale che Scorsese abbia realizzato il suo 2001, la sua personale odissea nello spazio (interiore). Perché è tramite il silenzio che può continuare il tragitto privato del pubblico, che si può estendere l'esplorazione individuale dello spettatore. E il Silenzio è la meta verso la quale ci indirizza definitivamente l'excipit, una sorta di riflesso malickiano, nonché di controcampo dell'ultima immagine di The Tree of Life: entrambi gli excipit come contenitori, grembi di luce. Una luce che ha un che di partoriale, di vaginale. Di propulsivo. Ambedue, quindi, come fiamme di candele nell'oscurità. Che bruciano e illuminano insieme. Insomma, si può dire che la sequenza finale di Silence sia la rifrazione dell'ultima immagine di The Tree of Life.

Silenzio, di conseguenza, come terreno fertile che permette, stavolta, il germogliamento, l'allungamento di quel germoglio che in futuro sarà albero, che in futuro diverrà, appunto, un tree of life. E sta allo spettatore scegliere i propri germogli da piantare per poi vederli crescere e dirigersi verso la sopracitata luce. Attingere ai raggi luminosi del (dio) sole, il quale, nel momento in cui viene inquadrato nel film, esso assume una connotazione estetica e spirituale di turneriana memoria, poiché secondo Mr. Turner [Turner, 2014, Mike Leigh] "the sun is God", considerazione ribadita poi da Padre Ferreira.  

Che segni un'epoca o meno, poco importa; sta di fatto che Silence ha segnato me. Mi ha fatto sentire meglio, in un certo senso. Capolavoro. Capolavoro incommensurabile. Non solo: per me, il miglior film di Scorsese. Ecco, farfuglio ininterrottamente senza dire nulla concernente il film. Il film? "Film"? Troppo poco... Ed io sento ancora la canzone intonata da Mokichi. Sento ancora il silenzio. Quel silenzio così disarmante. Quel genere di silenzio che ti porti dietro dopo la visione. Fuori dalla sala. Per ore. Per giorni. Per settimane e mesi. Forse per anni. Come quel lontano Silencio del 2001 che, viaggiando nel tempo, è giunto fino a Silence.

Grazie, Martin Scorsese.

 

P.S.: Questo è lo sfogo, la confessione di un ateo.

 

Martin Scorsese

Silence (2016): Martin Scorsese

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