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Warcraft - L'inizio

Regia di Duncan Jones vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su Warcraft - L'inizio

di M Valdemar
2 stelle

 

locandina

Warcraft - L'inizio (2016): locandina



Per tutti gli orchi, che porcheria!
Manco un'orda bella lorda di adepti del culto videoludico sviluppato dalla Blizzard Entertainment potrebbe, in tutta verità, difendere l'indifendibile.
Warcraft - L'inizio è, chiaramente nonché dichiaratamente, un (maldestro) capitolo 1 di una saga pronta a invadere l'universo dei pixel di tutto il globo. Solo un (probabile) tonfo taglierà la testa alla mostruosa creatura filmica.
Gli iniziati avranno forse goduto - velocemente, tutt'al più - nel cogliere riferimenti, toponomastica, dettagli; per tutti gli altri, un accoppiamento forzato da dimenticare il prima possibile.
Delle basi, delle origini, poco (deve) importa(re): il fatto, nudo crudo e putrido come l'orifizio orale di un orco orrido, è che l'opera altro non è che un ensemble - disomogeneo, pasticciato, convulso - di nozioni e derivazioni appartenenti alla - ormai ben nota - sfera crossmediale fantasy.
E sì, Il signore degli Anelli, primo fra tutti, va considerato.
Vi si (ri)trovano trame e sottotrame, testi e sottotesti, dilemmi e morali, creature e nature e armature; e conflitti, magia, tradimenti, passioni, infiltrazioni malvagie che consumano, sacrifici, morti dolorose, vendette, incoronazioni, eroi indomiti e antagonisti brutti sporchi e cattivi.
Un pezzo - consistente ma inconsistente - dello scibile in argomento.
Foss'anche però mero bieco ricalco, ma fatto bene o almeno discretamente, si potrebbe soprassedere, per certi versi.

Il punto, dolente come se l'avesse causata un'unghiata possente d'un muggente zanne-munito, è che Warcraft - L'inizio è un fragilissimo castello di carta. Anzi, di CGI. Ahi.
Un compendio di fuffa digitale: scene di massa così fasulle da far quasi rivalutare quei cialtroni (consapevoli) della Asylum, sequenze d'azione (tutte brevi) girate col pilota automatico di un velivolo animale ubriaco marcio, corpo a corpo scorporati di ogni epica e credibilità, mostri e posti disegnati senza alcuna creatività (e non sapendo nemmeno evitare di suscitare l'ilarità d'ordinanza: ok, ci sta pure Glenn Close/Santanchè; a nanna i bimbi please), raggi e composizioni di luce  - azzurra è bene, verde è male (una scoccata satirica a Salvini e illuminati seguaci?) - messi (male) a caso per fare sgargiante casino. E per chi vuole (farsi del male) c'è anche il 3D.
Insomma, il sommario trionfo di un'estetica tronfia che dà l'idea di un'idea di cinema sgonfiata di qualsiasi senso, nemmeno quello del mero intrattenimento.
La narrazione farraginosa eppur assai banale (archetipi e topoi della specie ci sono tutti), la gestione congestionata di tempi e ritmi, la direzione degli attori (che pure c'erano: il Travis Fimmel di Vikings ha physique du rôle e faccia giusta; Ben Foster normalmente sa essere incisivo; Paula Patton sedurrebbe anche un elfo di cartapesta) che risulta statica, indecisa, involuta, prevedibile: se persino l'elemento spettacolare è ridotto alla dimensione di un trailer venuto male, allora è notte fonda.
Quella in cui è andato a cacciarsi, evidentemente, il buon Duncan Jones, responsabile di regia (oibò!) e sceneggiatura (burp!). Irriconoscibile, imperdonabile: si spera almeno che l'abbiano pagato bene. E che torni in zone più consone alle sue capacità.
«Dalla luce viene la tenebra. E dalla tenebra, la luce.», il mantra ricorrente del film. Estiorchi.


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