Regia di Francesco Munzi vedi scheda film
Non è un film di denuncia (sociologico, per intenderci); e nemmeno il racconto compiaciuto, moralista e razzista, della criminalità calabrese; ma un’opera tragica (nel senso arcaico, direi greco, del termine) che narra in modo cupo il declino doloroso – visto da dentro – di una famiglia che ha il destino scritto nel sangue: un dramma familiare che quasi assurge ad archetipo, superando la collocazione geografica e temporale.
La storia si sviluppa attorno alle vicende di tre fratelli di Africo: Luciano, il più anziano, che ha deciso di rimanere ancorato alla sua terra ad allevare capre; Luigi, il più giovane, che si è trasferito al nord (fra Milano ed Amsterdam) e ha scelto di entrare nel traffico degli stupefacenti diventando un potentissimo boss internazionale; e Rocco che ha optato per la “rispettabilità” diventando imprenditore edile a Milano.
A trascinare i tre fratelli nelle ganasce spietate dell’autodistruzione sarà Luca, il figlio irrequieto di Luciano, che non si rassegna a condividere le scelte bucoliche del padre (che per lui resta un rinunciatario perdente) ma sogna invece di percorrere le strade dello zio Luigi, più seducenti, più remunerative, più coerenti col suo carattere spigoloso e con le sue smanie d’indipendenza.
In conseguenza di una sua stupida bravata, infatti, tutti – i cattivi, i buoni e gli ignavi – verranno stritolati dal fato come sotto un rullo compressore; e nessuno si salverà dalle faide ottuse e incrociate della loro antica terra. Per nessuno ci sarà pietà o redenzione; tutti finiranno annientati, come i personaggi del ciclo verghiano dei vinti.
Chi conosce la Calabria, l’associa al sole sfolgorante e al mare splendido.
Qui tutto è tenebra e squallore: prevale il fosco della notte, la penombra di interni claustrofobici, la nuvolaglia plumbea che incombe sulle creste del monte aspro, gli stazzi cadenti, i borghi martoriati dall’abusivismo, con le case senza intonaco e le strade storte e male illuminate, buone per gli agguati.
Le poche scene luminose sono girate al nord, ma mostrano architetture fredde, linee spersonalizzanti e luci livide da obitorio.
L’andamento è lento, greve e denso come l’angoscia.
A rimarcare i “valori” di un mondo arcaico e la sua distanza spaziale e culturale dall’universo dei “normali”, i dialoghi – sottotitolati – sono in calabrese, duri nei suoni e aspri nei contenuti.
La fotografia è caliginosa come le anime descritte e tetra come l’aria che questi disperati sono costretti a respirare.
Il regista, Francesco Munzi, non indugia in scene esplicite di violenza agìta, non ammicca ai generi (gomorra e suburra), non sbraita, non cerca l’effettaccio. Racconta i fatti con freddezza, e senza giudicare: le vicende sono di per sé implosive; i personaggi hanno sui volti immobili la condizione esistenziale di infelicità, indipendentemente da quanto va accadendo; la logica ineludibile della vendetta e del sangue-chiama-sangue è più agghiacciante e annichilente di ogni brutalità.
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