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Limite

Regia di Mario Peixoto vedi scheda film

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La recensione su Limite

di spopola
10 stelle

Tenendo fede alla sua  biografia, Limite è l’unica opera che il regista brasiliano Mario Peixoto è riuscito a portare a termine nella sua lunga vita, bastevole comunque a catapultarlo a imperitura memoria, nell’Olimpo dei più grandi e creativi artisti del cinema di tutti i tempi.
Da subito miticizzata come “eccezionale”, la pellicola è rimasta però per lungo tempo un invisibile quanto celebrato capolavoro sperimentale. La si poteva definire insomma come una specie di leggendaria Araba Fenice (anche se a differenza di quella, si sapeva perfettamente dove trovarla perchè una copia – l’unica superstite – era gelosamente custodita dal suo autore che aveva però deciso di renderla inaccessibile alla visione).
Il rischio di perderla definitivamente era comunque enorme a causa del suo progressivo e inarrestabile deterioramento che la stava lentamente distruggendo e che imponeva un restauro conservativo difficile, laborioso e piuttosto costoso, che non si sapeva nemmeno quanto potesse essere davvero produttivo (poi per fortuna effettivamente fatto, almeno come primo intervento finalizzato ad evitare che il nitrato d’argento si dissolvesse definitivamente, grazie a un accuratissimo lavoro di recupero che, partito nel 1959, si protrasse fino al 1978 e al quale come vedremo meglio più avanti, seguirono nei decenni successivi altri più radicali risanamenti che ce l’anno restituita quasi integrale,  poiché solo un piccolo spezzone è andato perduto).
Se ne parlava dunque e sempre in positivo praticamente in tutte le “Storie del Cinema” ma quasi sempre come l’oggetto di un impossibile desiderio, il che indubbiamente aumentava in maniera esponenziale il fascino di un’opera il cui valore continuava ad essere “glorificato” soprattutto per mezzo del “sentito dire”, visto che il passare del tempo assottigliava sempre di più il già esiguo numero di coloro che avevano avuto la fortuna di vederla in prima persona e di poterne di conseguenza scrivere o parlare con cognizione di causa, tanto che George Sadoul, desideroso di colmare la lacuna, dopo aver fatto un dispendioso quanto infruttuoso viaggio fino a Rio De Janeiro per tentare inutilmente di ottenere l’accesso a una visione privata che Peixoto invece gli negò, la definì così: Una pellicola straordinariamente importante per il cinema latino-americano delle origini,  quando sperimentare era il modo migliore per scoprire le potenzialità visionarie offerte dalla cinepresa, che è anche l“opera di un regista allora ventenne sorretto da un grande amore per il cinema che si era formato quasi esclusivamente nei cineclub. (in effetti però Peixoto aveva frequentato anche una scuola di cinema in Inghilterra che fu poi quella che gli permise di conoscere e di entrare in contatto con le avanguardie europee in gran fermento creativo in quel periodo e che a mio avviso lo influenzarono moltissimo quando dalla teoria passò alla pratica):  Si dice che sia davvero molto bella per la raffinatezza del suo linguaggio e la sua sensibilità melanconica. Che si tratta insomma di un film molto innovativo nella forma sul tema di fondo dei limiti dell’uomo, salutato per altro al suo apparire non solo nel suo paese, ma anche in Europa, come un capolavoro, ma che dopo il ’40, divenuto esclusivo appannaggio del suo autore, il regista - ritiratosi dallo schermo dopo due o tre sceneggiature che non gli fu consentito di girare in proprio e che furono poi  realizzate da altri –  non permette di vedere a nessuno. Tutto questo contribuisce a renderla davvero un’opera che col tempo ha finito per assumere una portata mitica, ma il cui valore effettivo è (purtroppo) impossibile controllare.
 
Sicura opera prima dunque, realizzata in età giovanissima da un artista realmente dotato di un eccezionale talento visionario e compositivo dell’immagine, del quale non si avevano notizie certe nemmeno in relazione all’anno effettivo della sua nascita che le fonti in genere indicavano essere il 1910, ma che Sadoul posticipava invece al 1912 (sapremo poi grazie alla Fondazione dell’Archivio Storico fortemente voluta dal regista Walter Salles e adesso guidata da Saulo Pereira de Mello  nata in Brasile nel 1996 e ancora attiva, che quella esatta era invece il  25 marzo del 1908, la stessa in cui è nato anche David Lean che è stato il suo regista preferito). Considerando dunque che il film è stato girato nel 1930 (distribuito l’anno successivo) possiamo adesso affermare con assoluta certezza che Peixoto aveva 22 anni quando affrontò con grande e consumata perizia tecnica, un’impresa che ha del miracoloso e che ha prodotto come risultato, un film davvero unico non soltanto in virtù della sua forma, ma anche per la pienezza e l’intensità dei contenuti,  che sono le speciali qualità che, in assoluto anticipo suoi tempi, ne fanno – lo ripeto – un’opera d’avanguardia e di rottura rispetto al cinema mainstream dell’epoca, fra le più insolite e inusuali soprattutto se prendiamo a riferimento il cinema brasiliano di quegli anni (ma non solo, poiché suscitò vasta eco e meraviglia in tutto il mondo). Un film insomma che gioca tutte le sue carte sulla prepotente forza delle immagini e sull’attenzione certosina ai dettagli, che ha il coraggio di ignorare intenzionalmente e in maniera del tutto originale, la linearità espositiva degli eventi. Pur essendo un film  “muto” e nonostante il caos intersecativo delle vicende, fa infatti un uso molto limitato dei cartelli esplicativi per affidarsi prioritariamente alle suggestioni visive, anziché a un senso più compiuto e convenzionale della narrazione.
Poco capito da un pubblico ancora impreparato che ne decretò l’insuccesso in sala, fu invece da subito molto apprezzato dalla critica e dagli addetti ai lavori: fra i tanti estimatori, anche Renée Falconetti, la Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer ; Pudovkin; Ejzenstejn; Orson Welles (e in tempi più recenti, David Bowie, che lo ha visto ed apprezzato dopo che è stato reso di nuovo disponibile). Devo comunque evidenziare che ha avuto anche uno strenuo detrattore in Glauber Rocha regista di spicco del “cinema novo” brasiliano della seconda metà del secolo scorso (Il dio nero e il diavolo biondo, Terra in trance, Antonio das Mortes) e straordinario cantore di una idea di cinema talmente diversa e contrapposta, che non poteva che avversare ferocemente il regista e la sua “creatura” anche quando il film era “invisibile” e si doveva appoggiare anche lui sul “sentito dire”. Rocha già in quegli anni lontani definiva infatti Peixoto (le ragioni di natura ideologica sono evidenti)lontano dalla storia(1959)incapace di comprendere le contraddizioni della società borghese” (1966)“storicamente superato” (1967), posizione che è rimasta immutata anche dopo che ha potuto vedere esattamente cosa proponeva la pellicola, poiché ancora alla fine dei ’70 del secolo scorso, ne ha parlato come di un prodotto della borghesia decadente e intellettuale.
 
I protagonisti del film sono tre naufraghi (due donne e un uomo) in evidente “fuga” da un qualcosa che li opprime, derelitti smarriti stipati sulla stessa piccola barca alla deriva, che si raccontano i drammi di un tragico passato mentre la tempesta infuria e le onde si fanno minacciose.
Tre storie di solitudine e di disperazione davvero “al limite” quelle che portano sulle loro spalle:  un pesante bagaglio di sofferenze e abbandoni che si esplicita per assonanze attraverso la costruzione un po’ criptica del montaggio e i frequenti  flashback che provano a ricomporre un affascinante puzzle che poi sarà lo spettatore a dover decodificare utilizzando gli elementi che ha potuto acquisire durante la visione.
Un uomo e due donne, come abbiamo detto (la prima delle due donne è un'evasa; la seconda ha avuto invece un percorso esistenziale così travagliato che non riesce più a mantenere viva la speranza; l'uomo infine deve fare i conti con una colpa che lo costringe a confrontarsi con la sua coscienza e con una vita che percepisce come un buio tunnel senza uscita). Storie e drammi che si sfiorano e si intrecciano fra loro, ma che rendono chiaro allo spettatore che nessuno dei tre ha ancora la forza o la voglia di continuare a vivere, ed è di conseguenza il tema della morte, del suicidio (inteso come necessità di superare il limite, il “confine” ) che torna spesso in primo piano.
Trama davvero esilissima insomma, ma ideale per mettere in evidenza e rendere palese l’elevata statura artistica dell’autore, la maturità della sua tecnica e le inusuali qualità di penetrante introspettività che possedeva.
 
Limite inizia introducendo subito il leitmotiv ricorrente dell’essere intrappolati, di non avere alcuna via di salvezza, poiché ciascuno è chiuso dentro una “prigione” che rende difficile anche il comunicare. Il suo partire a gamba tesa verso una dimensione fra il sogno surreale e l’incubo, lo fa diventare immediatamente ipnotico oltre che spiazzante. Mostra infatti le immagini di un uomo e una donna ammanettati insieme e quasi “fluttuanti” che sembrano ormai essere poco più che delle larve umane che annaspano impotenti. Una sequenza diventata celebre che – volendo – potrebbe persino riecheggiare (ovviamente leggendola in un’altra prospettiva) qualcosa del cinema di Hitchcock della prima fase della sua carriera, per quanto risulta essere oltre che suggestiva, anche inquietante, quasi premonitrice. Ovviamente si tratta però soltanto di un suggerimento visivo poiché Hitchcock sicuramente avrebbe proseguito in tutt’altra direzione, mettendo in piedi proprio su quella sequenza, un thriller mozzafiato, mentre invece Peixoto preferisce sviluppare il suo lavoro di scandaglio della sofferenza dell’anima, ricorrendo a uno sviluppo che intende privilegiare quelle atmosfere fra il metafisico e l’onirico che rimandano a Man Ray, ma che potrebbero essere state mutuate dall’avanguardia europea del periodo soprattutto francese (penso per esempio e in particolare, proprio alle immagini in libertà, vere e proprie “sinfonie visive” di pura essenza cinematografica, fissate sulla pellicola da Germaine Dulac nel 1928 con quel caposaldo del “surrealismo impressionista” cinematografico che è La coquille et le clergyman, realizzato su una sceneggiatura di Antonin Artaud, o all’ancor più radicale La Souriante Madame Beudet, forse il suo capolavoro assoluto).
Il regista infatti ci trascina subito dopo dentro un continuum di tempo che si reitera e ci riporta nel passato. Traccia così le sue linee di ondivaga memoria associando episodi, oggetti e movimenti, attraverso ripetuti flash visivi che senza tante spiegazioni e molte variazioni ritmiche, si riflettono in altre immagini altrettanto suggestive.
Secondo Peixoto, il suo film è “meticolosamente preciso, come gli ingranaggi ruotanti di un orologio (…) un grido di dolore disperato che la pellicola si limita a fare risuonare evitando però di “mostrare” interamente e fino in fondo, le cause profonde del disagio – soltanto suggerite - che lo hanno provocato. Non vuole insomma essere un’analisi dettagliata e conclusiva, ma aspira invece a diventare una riflessione altrettanto sconsolata che mette in scena il flusso ininterrotto fra passato e presente con tutte le implicazioni e le concause che ne derivano, “catturate” e fatte percepire, portando in evidenza oggetti, dettagli e “paralleli” dentro a sequenze di accurata costruzione nelle quali si è provato a non lasciare praticamente nulla al caso  tanto sono studiate e meditate ”.
 
Sappiamo che le intenzioni del regista erano quelle di far accompagnare il film non da una esecuzione (dal vivo o registrata) di brani musicali, come si usava in quegli anni per le pellicole del muto, ma solo da rumori naturali quali il vento, il fruscio delle foglie o il frangere delle onde sugli scogli, e che fu costretto ad abbandonare l’interessante progetto per le difficoltà tecniche di realizzazione.
Si decise così di ricorrere a una più consueta struttura “sinfonica” che alla prima del film fu eseguita al piano da Bruno Pedreira al quale fu affidata anche la scelta (con la supervisione del regista) dei pezzi poi rimasti immutati nelle successive, scarsissime proiezioni  che ha avuto (e puntualmente ripresi anche nei due successivi restauri, il primo finito nel 1978 a cui accennavo sopra, e quello successivo che per più di una ragione può considerarsi “definitivo” che ha riportato la pellicola al suo splendore originale, realizzato nei primi anni del 2000 (che credo sia proprio quella che ho potuto visionare anche io) grazie all’impegno e  alla dedizione della World Cinema Foundation di Martin Scorsese (che diede poi origine a uno degli eventi davvero speciali del Festival di Cannes del 2007, dove fu presentato in pompa magna e che, al termine dell’affollata proiezione, qualcuno paragonò a The Angelic Conversation che Derek Jarman aveva girato nel 1987, per il ritmo altrettanto disteso, elegiaco, lento ed avvolgente che li accomunava.
Quel “ritmo” speciale che trova un particolare vigore proprio nell’essere cadenzato da quel supporto sonoro “aggiuntivo”,  classico e struggente  che sembra davvero costruito e scritto sulle immagini, che vede in primo piano la musica di Erik Satie  (più esattamente il quartetto d'archi in fa maggiore composto nel 1903) il cui tema scelto e spesso ricorrente, è davvero capace di intensificare l'effetto gia molto coinvolgente della parte visiva, dentro a un impasto complessivo che include anche brani di Debussy, Borodin, Stravinsky, Prokofiev e Cesar Franck: conoscendo l’ossessione del regista  per i minimi dettagli che quasi “costringeva” persino le piante a piegarsi in un certo modo per essere riprese come voleva lui, credo dunque di poter attribuirgli quasi interamente il merito anche di un “montaggio dei brani” capace di determinare questa singolare “corrispondenza” quasi contrappuntistica fra suoni e immagini. A titolo di pura curiosità, segnalo comunque che in un’ulteriore riproposizione ancora più aggiornata (una vera e propria nuova edizione che è poi sfociata anche nella produzione di un DVD fatta dalla Fondazione brasiliana e presentata al pubblico nel novembre del 2011 all’Auditorium Ibirapuera di San Paolo), è stasa appositamente approntata una nuova colonna sonora (di impronta “jazz”) composta dal pianista norvegese Bugge Wesseltoft che ha riunito intorno a sé per l’esecuzione dal vivo, Ola Kvernberg (violino) Rodolfo Stroeter (basso), Nanà Vasconcelos (percussioni) e Marlui Miranda (flauto e voce).
 
Tornando comunque direttamente al film (e per concludere), credo che sia giusto sottolineare che è l’intero film che languidamente sembra voglia trascinarci alla deriva, merito anche di un complesso utilizzo della cinepresa librata in aria attaccata a delle corde. E’ proprio grazie a questa soluzione artigianale che il regista è riuscito a riprendere (e “sospendere”)  le immagini come se galleggiassero nel vuoto.
Peixoto, che amava paragonare la cinepresa al cervello umano, aveva dunque una concezione visiva molto personale che potrebbe ricordare (tanto per fare un esempio concreto e fatte le debite proporzioni)  la forma letteraria utilizzata da Virginia Woolf per scrivere i suoi romanzi: anche in Peixoto infatti ci sono virtuosismi di scrittura, e pure in lui (come succede a volte nella Woolf) il passato si fonde col presente (e questo accade soprattutto quando i suoi personaggi dallo sguardo immensamente triste, ricordano eventi recenti o vivono il presente, ma finiscono per esprimere sentimenti, percezioni, espressioni e soggettività che travalicano il tempo e lo spazio.
Le linee visuali della pellicola comunque non si limitano a rimanere ancorate alle persone, poiché  esplorano incessanti anche atri “universi” a volte con un andamento ellittico, altre con una forma  così geometricamente esasperata, che arrivano a mostrando ruote, maniglie,strade, alberi spogli, rami e piante, pali, tetti, pareti, scale o recinzioni come se fossero figure che assomigliano a delle croci o a dei triangoli.
Qualche critico si è spinto persino a dire che il film sembra voler simboleggiare il limite estremo del muto e il suo successivo e inevitabile passaggio al sonoro che dovrà necessariamente  muoversi in altre direzioni: sicuramente oltre ad aver rappresentato con adeguata proprietà di linguaggio la futilità dell’esistenza umana, la pellicola è anche un riuscito tentativo di mostrare le infinite e suggestive possibilità visive e tecniche di un cinema a quei tempi ancora abbastanza artigianale dove a contare di più era la fantasia e l’inventiva del suo autore.
 
Steven Jay Schneider ha inserito Limite fra i titoli dei 1001 capolavori del cinema mondiale che dovrebbero essere visionati almeno una volta prima di morire.

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