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Il padre

Regia di Fatih Akin vedi scheda film

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La recensione su Il padre

di EightAndHalf
5 stelle

L'epica de Il padre è un'epica che chiede di sacrificare la profondità caratteriale dei personaggi che appaiono in scena e, al contempo, la disposizione non manichea dei ruoli all'interno della vicenda. Non che non sovvengano sottilissimi dubbi sul ruolo del Bene e del Male, nel nuovo film di Fatih Akin, certe immagini al riguardo vogliono proprio destare smarrimento nelle eventuali certezze coltivate dallo spettatore (sopra tutte, la fuga degli Ottomani da Aleppo, che vengono praticamente lapidati dagli armeni al punto da cavare un occhio a un bambino turco innocente), ma queste forme di smarrimento non rappresentano davvero nulla di nuovo, tutto considerato. Preso tutto assieme, Il padre consta di una grammatica narrativa che sa di già visto dall'inizio alla fine, in cui è l'impianto formale spesso a salvarsi con sequenze che furtivamente si fanno strada attraverso snodi del racconto che appaiono al limite del pretestuoso, quasi a voler allungare il brodo per raggiungere la mastodontica durata di 2 ore e 20 minuti (che si sentono, ma non si soffrono comunque troppo).

 

Tahar Rahim

Il padre (2014): Tahar Rahim

 

Sull'edizione italiana verrebbe voglia di sorvolare, anche se è doveroso far notare non solo l'assurda volontà di doppiare tutto quanto, ma proprio tutto, così da dimezzare il senso di estraneità che sicuramente il protagonista prova nel fare il suo ingresso in molti paesi del mondo differenti, ma anche la decisione di tradurre un titolo così evocativo e interessante, The Cut, con un anonimo Il padre che certo non sarà più intrigante per il pubblico pagante rispetto a un ben più attraente Il taglio, per esempio. Ma senza dilungarsi eccessivamente su questo punto, risulta interessante far notare che il carattere epico del nuovo lavoro di Fatih Akin, presentato a Venezia 71, ha un che di amorfo, stantìo, ma non per questo poco aggraziato. Non viene  messa in dubbio la fluidità narrativa della pellicola (non incoerente con l'evidente voglia di dilungarsi nelle disgrazie/fortune del protagonista Nazarét), le cose che si imputano soprattutto a The Cut sono il prepotente senso di posticcio che si respira in certi siparietti un po' più ironici, l'approccio genuinamente occidentale (diciamo ancora di più, "americano" e globalizzato, non "europeo" e autoriale come ne La sposa turca), la mancanza di screziature psicologiche nei personaggi, non tanto in quelli di contorno quanto proprio nei protagonisti, o, ancora meglio, nel protagonista, che diventa un eroe checché decida di credere davvero in Dio o meno, alla fine, e alla sua misericordia.

 

Tahar Rahim

Il padre (2014): Tahar Rahim

 

Se dunque non è tanto il contenuto del film a brillare per originalità (importante la tematica del genocidio armeno, che però non diventa angoscioso e asfissiante come poteva essere, per esempio, lo smantellamento di un ghetto di Varsavia ne Il pianista, per citare un'altra grossa produzione degli anni 2000 a tema storico), e non affascinano particolarmente nemmeno le parentesi oniriche (le apparizioni della moglie e delle figlie a "risvegliare" e far rialzare Nazarét dalle numerose cadute del suo percorso), ciò che salva la visione del film di Fatih Akin è, come già detto, l'impianto formale. L'uso del grandangolo, della luce alternata al buio (il sole focoso del deserto con il nero gelido della notte) e dei primi piani riescono a conferire a The Cut quell'aura di epicità che riesce ad assumere, e a non farla sembrare una pretesa disattesa: si prendano le immagini della fuga nel deserto, con l'arrivo del treno; il piano sequenza dei lavori forzati a inizio film, con l'occhio che non sa dove indugiare finché non capisce qual è il centro della scena; e, infine, lo strazio e la morte della cognata protagonista, che viene visto in tre diversi momenti della giornata, e raggiunge in quello intermedio del tramonto un momento di eccezionale valenza lirica, ben superiore a una scena molto più facilona e ricattatrice qual è quella della visione del Monello (urlato da una bigotta rumorosa come prodotto dal demonio).

 

Tahar Rahim

Il padre (2014): Tahar Rahim

 

Tahir Rahim riesce a dare una discreta presenza scenica al suo personaggio un po' evanescente (su misura per un kolossal "d'autore" come questo), anche se appare sempre troppo "ripulito" in faccia per essere uno che ha attraversato tutte le fatiche messe in scena; dopo l'ascesa carceraria di Il profeta, anche in The Cut il suo personaggio sembra costretto a un percorso esistenziale che giunge a una parziale, discutibilissima vittoria. Il problema di The Cut (che lo differenzia da un "viaggio" come quello de Il profeta) è che niente scalfisce la scorza dura dell'eroe, all'occhio della spettatore. Può essere ferito, ammutolito o quasi miscredente, ma è sempre a un passo verso l'idillio morale e il coraggio assoluto (eroe per istinto, verrebbe da dire). Ma in una storia che vuole essere una riflessione sul Male della Storia, che inspiegabilmente si insinua nel tessuto vitale dell'essere umano più normale e umile, avevamo davvero bisogno di un eroe?

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