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Un ragazzo d'oro

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Un ragazzo d'oro

di LorCio
4 stelle

Può un tema persistente quanto insistente ingabbiare la felicità creativa di un autore che, nel bene e nel male, ha segnato una tappa di estrema dignità nel corso del cinema italiano degli ultimi trent’anni? Può la continua ma anche monotona ricerca del tempo perduto limitare le potenzialità di un grande raccontastorie che all’improvviso appare incapace di trovare la sintesi fra affabulazione narrativa ed approfondimento psicologico?

 

Era probabilmente già nell’aria da tempo la battuta d’arresto che Pupi Avati incontra con questo Un ragazzo d’oro, tra gli esiti più modesti della sua quarantennale carriera. Alla stregua di un bignami autoreferenziale, Avati torna ai temi che hanno abitato i suoi ultimi due lustri dietro la macchina da presa: il rapporto padre-figlio, la perdita dei valori, il talento incompreso.

 

Insomma, per azzardare un riassunto, la cena per far conoscere finalmente il cuore grande del padre al bambino cattivo (o al figlio più piccolo). Più che di coerenza, possiamo parlare di empasse creativa? O perlomeno di esercizio di stile (soprattutto narrativo) con al centro le forme trite e risapute di un piccolo mondo ormai consunto? Possiamo, possiamo.

 

Perché a determinare l’infelicità di Un ragazzo d’oro è proprio la rabbia dello “spettatore consapevole” che segue Avati con la convinzione che trattasi di vero autore. Diciamolo chiaramente: qui siamo di fronte ad un film girato male, con l’estetica della fiction degli anni novanta, tra zoom assolutamente improponibili ed inquadrature che abbiamo già visto in una marea di altri Avati-movie.

 

Più che di stasi autoriale parlerei proprio di una regia impacciata, goffa, priva di mordente, più facilona che semplice; di una sceneggiatura didascalica, esageratamente esplicativa, in cui l’idea del resoconto autobiografico al cellulare nasconde rozzamente l’esigenza di un’invadente voce narrante (cosa girava nella mente del presidente Castellitto quando la giuria del Festival di Montreal ha concesso al film l’alloro per la miglior sceneggiatura?).

 

Parlerei di una risoluzione della storia tra il prevedibile e lo scontato, di superficialità nel delicatissimo e potenzialmente affascinante tema della trasformazione del figlio nel padre (e non è un caso che Avati dia il meglio quando fa stare zitto il suo protagonista e lascia che siano le immagini a raccontare questo inquietante mutamento intimo ed estetico), di personaggi piatti e contraddittori (con la parziale esclusione della sofferta madre di Giovanna Ralli).

 

E se la scelta di Riccardo Scamarcio appare più che pertinente e regala al film un’ansia ben modulata sulle corde del melodrammatico (anche se lo sviluppo della “follia” di Davide avrebbe necessitato di minori moine da ubriacone), quella di Sharon Stone confina quasi col trash involontario, complice il tremendo doppiaggio di Jane Alexander (l’arte del doppiaggio non si impara in due sessioni).

 

La figura della Stone non è soltanto straniante come elemento del racconto filmico, ma soprattutto ingessata, quasi un personaggio bidimensionale, limitante, titanica nella sua fragilità di diva eterna ed al contempo vagamente decaduta, appare senza una mitologia adeguata, come se fosse stata colta nelle pause del suo shopping presso Fendi. Che sarebbe stato questo ruolo nel corpo, che so, di Barbara Bouchet o Edwige Fenech?

 

Ed infatti, ecco, l’aspetto più interessante di questo film sta nell’evocazione del cinema di serie B degli anni settanta-ottanta, epoca in cui il babbo di Scamarcio ha scritto una valanga di sceneggiature per film come Dove vai se il vizietto non ce l’hai? (la scena in cui la Ralli e Scamarcio ridono per le battute di Renzo Montagnani ed Alvaro Vitali indica la vera e condivisibile idea che Avati ha di questo cinema: possono anche far ridere, ma che disastro la mitizzazione tarantiniana di questa roba qua).

 

Questo aspetto, in cui convogliano le frustrazioni di uno scrittore fallito ed incompreso e la rievocazione fotografica o semplicemente verbale di Enrico Maria Salerno (che avrebbe dovuto dirigere il copione capolavoro del babbo) e Laura Antonelli, si lega a quel piccolo e sfortunato Festival che, ispirandosi alla nota vicenda del premio mancato a Walter Chiari ad un Festival di Venezia, trattava proprio la catastrofe interiore dei talenti incompresi (qui c’è un conteggio sbagliato dei mai citati David di Donatello che fa perdere la testa a Bias).

 

Se c’è una cosa che in questo Ragazzo d’oro, pur coi suoi limiti, funziona è proprio la malinconia rabbiosa del talento incompreso. Che poi si collega alla rabbia malinconica dei figli che non hanno compreso i padri. Se avesse elaborato meglio questo magnifico tema, Avati avrebbe realizzato un grande film. E complice anche, forse, la mancanza di collaboratori abituali (su tutti il compianto Riz Ortolani sostituito da un fin troppo retorico Raphael Gualazzi), infila il peggior film della sua carriera.

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