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The Reach - Caccia all'uomo

Regia di Jean-Baptiste Léonetti vedi scheda film

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La recensione su The Reach - Caccia all'uomo

di logos
6 stelle

Un film western nel mondo attuale, nel deserto del Mojave, dove un uomo ricco, assicuratore in ambito finanziario, il sig. Madec (Michael Douglas), vuole conquistare l’ultimo suo trofeo, un animale prezioso, il bighorn, anche se in un periodo che ne sarebbe interdetta la caccia.  

Ben (J. Irvine), il giovane esperto di guida nella caccia e nel soccorso, alle dipendenze dello sceriffo, rimane un po’ stupito di questa iniziativa e chiede i certificati che autorizzano l’impresa, ma lo sceriffo lo stoppa immediatamente riferendo che ne ha già controllato personalmente la validità. Ecco allora i due uomini nel deserto, Ben e Madec, equipaggiati con armi e tutto quanto serva all’occorrenza, nella grossa macchina di Madec, il quale subito sfodera esperienze e qualità tecniche al giovane Ben, che intanto gli racconta della sua ragazza, che se ne è andata per l’università, mentre lui è dovuto rimanere per continuare nel lavoro la tradizione di famiglia.

 

Già da queste battute si vede la lontananza tra due mondi: l’uno spaccone e conquistatore, che scavalca la legge con il denaro (a proposito, Madec non ha alcuna certificazione ma ha soltanto corrotto lo sceriffo), l’altro invece ligio al dovere, che basa la sua esistenza sulla routine di un lavoro quotidiano. Mentre Madec telefona con il suo satellitare per far rilevare una sua azienda agli asiatici per un controvalore smisurato, Ben, saputo della corruzione avvenuta dello sceriffo, diventa sempre più guardingo, avendo anche lui accettato una somma in danaro con una certa ritrosia. Tutto sembra girare con una certa tensione sotterranea, che finisce per diventare lampante quando Madec per errore uccide un uomo, credendo di aver trovato il suo trofeo.

 

A questo punto l’unica cosa da fare è portare l’uomo colpito in città, ma, osserva Madec, avendolo rifinito con altri proiettili, difficilmente si potrà pensare a un incidente, e di conseguenza ci sarà un 50%  di possibilità che la colpa ricada sull’uno o sull’altro, su Madec o su Ben.  A meno che non si prosegua nella caccia, Ben se ne stia ben zitto, intaschi altri quattrini, e se ne vada a fare quattro anni di università con la sua ragazza, nell’ambito finanziario, in cui Madec ha delle buone conoscenze per prospettargli finalmente un’esistenza nuova, il cui successo è assicurato.

 

Ben non accetta tutto questo, e allora inizia la caccia all’uomo, Ben, da parte di Madec. Il problema è  che Madec deve stare attento a come ucciderlo; non può colpirlo con un proiettile, deve fare in modo che muoia cotto dal sole, perché solo così potrà andare in città e riferire che Ben ha perso la testa, ha ucciso l’uomo solitario nel deserto, e ha tentato di uccidere lo stesso Madec, che ha dovuto svignarsela in fretta, senza colpo ferire.

 

Film di questo tipo ce ne sono a bizzeffe, migliori e peggiori, non sto a elencarli perché non me ne ricordo nemmeno uno, tanti che sono e il caldo che fa. La fotografia è splendida, non manca la suspense, e il deserto è una vera e propria metafora della sopravvivenza e della formazione, di un Ben che piano piano si trasforma, diventa sempre più astuto nell’aggirare il nemico, fino a trasformarsi nello spirito, come se il deserto, invece di ucciderlo, gli dia un’altra possibilità di rinascita esistenziale. E in effetti e così. Il Ben che esce da questa storia è un uomo rinnovato, che lascia a se stesso il dono di essere libero nel seguire il suo amore. Certo Madec è un uomo cattivo, luciferino, ma forse il suo passaggio non è stato invano, dato che l’innocenza può davvero essere una virtù se passa attraverso il male...  come direbbe Hegel.    

 

I limiti però, a mio modesto avviso, ci sono. Un finale troppo prevedibile e scontato, tanto da seppellire l’intera opera rispetto ad ogni gioco delle interpretazioni, perché è un finale che reifica tutto il film in un’unica lettura possibile. E poi la poca insistenza sul percorso interiore di Ben nella sua fuga, e troppa attenzione all’azione. Uno potrebbe dire che è normale, c’è poco spazio all’interiorità se bisogna darsi alla fuga, sopravvivere a tutti i costi… Eppure Léonetti in certe ambientazioni sembra proprio alludere all’interiorità: si pensi a Ben quando entra nella grotta, come luogo di rinascita, di trasformazione, di rivisitazione del suo passato e di riappropriazione di sé. Non mancano spunti, ma potevano essere maggiormente incisivi. Michael Douglas secondo me è stato davvero bravo. Peccato, lo ribadisco, per il finale.

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