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Shanghai Express

Regia di Josef von Sternberg vedi scheda film

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La recensione su Shanghai Express

di Lehava
6 stelle

 

In fondo, tutto è già stato scritto e detto su Josef von Sternberg, la sua idea di cinema, il suo talento d’ambiente,  il suo rapporto estremo con i collaboratori, al limite del sadismo clinico con gli attori (feticcio). Altri tempi, veramente: il potere straordinario (da vertigine di onnipotenza) dell’artista di creare un’opera: in pellicola o in persona.



Nato a Vienna, di famiglia ebraica (Jonas Sternberg all’anagrafe) aggiunse il "von" in età adulta. Volendo acquisire formalmente una nobiltà di nascita, ovviamente fasulla. Questo particolare, apparentemente irrilevante, della sua biografia, ben sottolinea una personalità sfaccettata e problematica. A cui, diciamocelo, non saremmo particolarmente interessati, se non fosse che essa rappresenta il tema centrale di tutta la sua produzione. "Cinema narcisista estremo", lo si potrebbe definire. E ancora, cinema come "ricerca” di sé (“Se i miei film hanno uno stile un po’ coerente, esso è fondato sulla ricerca e non certo su una conclusione. Se certe cose in essi sembrano vaghe, è inevitabile: ogni ricerca si fa nel vago” dichiarò) e “costruzione” di sé, o meglio di una immagine di sé ideale e quindi inverosimile e falsa. Dove non conta quello che è ma quello che appare. Non dissimile dal “von” di facciata.

Esemplificazione iconografica e paranoica di tutto ciò: il rapporto (von) Sternberg – Dietrich. Artista ed opera d’arte, appunto. Perfetta nella sua irrealtà. Come in un gioco di specchi, dove il riflesso è sempre quello del regista. Lee Garmes, il direttore della fotografia di “Shangai Express” ricorda che girando “Prima il regista era Clive Brook che baciava Marlene, e poi era Marlene che baciava Clive Brook!”.

Il cinema di von Sternberg è tutto qui: non è poco, certo. Soprattutto in prospettiva storica. Anche se,  rivisto oggi, neppure così tanto.

Innanzi tutto l’attenzione maniacale per la fotografia: giochi di luci ed ombre, dissolvenze, non solo ambientali ma soprattutto attorno ai volti dei protagonisti (il celeberrimo “flou”) a delinearne contorni e caratteri. Nell’autobiografia (ma anche opera semi-didattica e certamente teorica sul cinema) “Fun in a chinese laundry” il capitolo dove più si tratta delle tecniche di illuminazione si apre con una citazione di Goethe, morente, che chiede “Più luce!”. Gran bella battuta, mi verrebbe da dire.

Si accosterà il suo stile all’espressionismo. Impropriamente, a mio avviso. Almeno se per espressionismo si intende (cito wikipedia, per semplicità non certo per autorevolezza) “la propensione a privilegiare, esasperandolo, il lato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente”. Ma certo provenienza teutonica e datazione (anni Trenta) rendono la definizione comprensibile anche se non proprio accettabile.

Dunque la fotografia. Poi, la costruzione dei personaggi. O meglio di un unico personaggio, alter ego del regista: una Dietrich impostata, nella voce e negli atteggiamenti, in una delineazione estetica precisa e ripeto irreale. Quindi le ambientazioni, o meglio le non-ambientazioni: in interni, ostinatamente. Relegata ai margini la scrittura (dal singolo dialogo alla sceneggiatura completa) spesso carente. Una mancanza di equilibrio (fra i protagonisti per esempio) costante, ed poca dimestichezza con il termine “ritmo”.

Tutto questo rende il cinema di von Sternberg visivamente affascinante, ma sempre pericolosamente al limite del vacuo.

 

"Shangai Express" è perfetto esempio, in tal senso. Un film che “fece epoca”,  che consolidò un mito (la Dietrich) che ancor oggi stupisce per soluzioni tecniche-estetiche all’avanguardia: il fumo, la vaghezza, la claustrofobia degli ambienti (il treno, ma anche la città che si chiude e si addensa sui binari), l’allure attorno al volto della protagonista. Con qualche battuta d’effetto e modernità, come quella secondo cui ci vollero molti uomini per creare Shangai Lily (una elegante etera impellicciata e dal cuore tenero). Ma nel complesso, la pellicola mostra con gli anni tutte le sue crepe: un intreccio improbabile e pasticciato, comprimari “macchiette”, un protagonista maschile improponibile (scialbo e scontato), repentini, inspiegabili, imbarazzanti colpi di scena, un finale scapestrato da romanzo rosa.
I presupposti erano i migliori: è evidente la volontà registica di calcare la mano sul rapporto realtà-finzione, sull’apparenza che inganna, sul disvelamento di un mistero, che è quello dell’animo umano. La riuscita, oggettivamente scarsa. Persa nelle nebbie (oggi sarebbe l’impietoso smog) di Pechino. O sul volto della Dietrich, perennemente in scena, totalmente immerso nel ruolo. Senza il quale “Shangai Express” non potrebbe essere. Difficile dire se von Sternberg avesse smarrito la via dell’equilibrio sulla strada lastricata dalle piume di gallo nero della stola della sua musa, oppure se solo grazie a lei questo film abbia potuto reggersi in piedi. Forse entrambe le cose.
Ma la realtà è sulla pellicola: un noir di medio livello, a cui si concede un plus per la tecnica soprattutto considerandone l’età avanzata.

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