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TIR

Regia di Alberto Fasulo vedi scheda film

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La recensione su TIR

di OGM
7 stelle

Andare non dove vuoi tu, né dove ti porta il caso. Dirigerti, invece, verso mete che ti sono imposte da altri, di volta in volta, sempre diverse, sempre insensate. Anche questo è un modo di vivere on the road. Nettamente separati dalla leggenda, distanti mille miglia da ogni sospetto di poesia. La vita di Branko, autotrasportatore croato, ex insegnante, è fatta di chilometri da macinare attraverso l’Europa, di soste forzate, di lontananze, di assenze. Di pasti consumati malamente al volante, di docce improvvisate ai bordi di una strada. Caricare, scaricare, aspettare nuovi ordini, e poi ripartire.  Intanto come si fa ad essere un padre, un marito, un nonno che si rispetti, se non si è mai a casa. Se la famiglia si deve gestire per telefono, mentre si sta con gli occhi puntati sulla carreggiata. Il suo amico Maki non ce la fa più. Forse sta davvero per mollare. Forse se ne andrà anche lui, e Branko sarà infinitamente più solo. Si ritroverà come un’anima in pena, dovunque, e in nessuno luogo, visto che l’universo continuerà ad essere un paesaggio in fuga, inquadrato di sfuggita. Lo sguardo del regista Alberto Fasulo si adatta a quelle angolazioni risicate e furtive, che non centrano mai l’insieme delle cose, ma solo i dettagli che hanno il tempo di insinuarsi nelle fessure di una coscienza senza requie, eternamente in marcia, mai libera di riposare sulla routine, sulla tranquilla ripetitività delle certezze quotidiane. L’angusto interno della cabina di guida. L’immagine riflessa da uno specchietto retrovisore. Un particolare che filtra tra le sbarre che tengono ferma la merce. Ombre, fasci di luce, strisce di asfalto e di cemento. Intanto l’umanità è ridotta ad una voce. Un suono un po’ artificioso, un po’ metallico, che giunge attraverso la radio o il cellulare. Uno spostamento d’aria ridotto a sillabico ronzio, pronunciato in tutte le lingue del mondo.  La concretezza ha il volto segnato di Branko, con le sue rughe, le sue occhiaie, la sua barba di due o tre giorni. è ruvida come quel remoto gracchiare, aspra e sospesa, fra le righe della fatica, come quelle parole che, da un apparecchio, parlano d’amore, di rabbia, a volte anche di banalità. Pensieri e visioni sono ridotti a sprazzi indistinti ed amari: un collage troppo frammentario e discontinuo per creare un dramma, ma anche troppo pieno di acuti per formare la semplice testimonianza di una realtà professionale. Questa docufiction esprime lo sconcerto anche e soprattutto attraverso l’ambiguità della forma, indecisa tra il lamento dell’individuo sofferente e la denuncia sociale. Questo indefinibile crocevia di registri racchiude, magari, il vero significato del moderno smarrimento,  in cui la crisi economica e le sue ripercussioni sulle modalità lavorative costituiscono un problema di tutti, il quale, tuttavia, si traduce, per ognuno, in una diversa sfaccettatura dell’alienazione. Disorganizzazione, ritmi serrati, sottomissione spietata alle leggi del mercato, sono gli aspetti di una disumanizzazione che esaspera il divario tra paesi poveri e paesi ricchi, incoraggia l’immigrazione, disgrega le famiglie, alimenta le tensioni interculturali. Le divisioni globali si sfrangiano in tanti personali strazi. Quelli che sono difficili da cogliere, e anche da inseguire, mentre corrono su e giù, fra autostrade, magazzini, aree di servizio, postazioni anonime che non offrono asilo, che non costituiscono il bandolo della matassa, il punto finale del discorso, ma servono solo a dare al filo un altro giro, un altro nodo, ad aggravarne il garbuglio. 

 

scena

TIR (2013): scena

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