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Un matrimonio da favola

Regia di Carlo Vanzina vedi scheda film

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La recensione su Un matrimonio da favola

di LorCio
7 stelle

Una suggestione: con quella partenza alla fine degli anni ottanta e all’alba dei novanta, Un matrimonio da favola (titolo orribile) inizia dove più o meno finiva Notte prima degli esami, uno dei due o tre film italiani degli anni zero che, al di là dei propri pregi e difetti, ha saputo creare sia un significativo filone produttivo, per certi versi anche stucchevole (la commedia giovanile-liceale un po’ nostalgica e un po’ romantica), che un immaginario in grado di segnare, nel bene e nel male, una generazione di giovani spettatori. L’elemento più importante di questa suggestione riguarda, però, la produzione: dietro i due film c’è Fulvio Lucisano, ultimo produttore di un antico cinema popolare che ha affermato, perlomeno negli ultimi dieci anni, una linea editoriale fieramente votata al pubblico senza cialtronerie e con una certa omogeneità stilistica (anche grazie alla collaborazione con il Brizzi-pack).

 

Il motivo principale per cui Un matrimonio da favola è il miglior film dei fratelli Vanzina da dieci anni a questa parte si trova tutto dentro questo elemento: la presenza di un produttore forte con una propria idea di cinema, condivisibile o meno. Benché si possa esprimere più di una riserva a riguardo, si potrebbe collocare questo film in una categoria di commedia popolare di consumo meno patinata rispetto al brizzismo delle schermaglie tra i sessi e più aggraziato rispetto al cinepanettonismo di “nuova” fattura (quello dei vari Colpi). L’apporto, in sede di sceneggiatura, di Edoardo Falcone, membro del Brizzi-pack rimasto in forza alla scuderia di Lucisano, risulta determinante proprio nella visione di un prodotto popolare ma non volgare, lineare ma non scontato, forse eccessivamente romano-centrico ma, in qualche modo, in linea con l’idea di cinema antico che sa rinnovarsi al nuovo corso.

 

Al netto delle convenzionalità di una trama, tutto sommato, prevedibile, i Vanzina riescono, finalmente, a costruire una storia come si deve soprattutto per il tono garbato che conferiscono alla struttura narrativa, in cui si raggiunge una sorta di equilibrio tra le gags visive (il visone della signora russa lanciato all’aria o schiacciato sotto il sedere, Memphis che sbatte la testa e finisce in lavanderia) e l’intreccio tra le diverse trame e sottotrame, gli elementi da pochade d’altri tempi (il triangolo di Solfrizzi) e da commedia degli equivoci (i vari partner, ufficiali e no, che si ritrovano tutti a Zurigo, la sequenza del bordello) e le strizzate d’occhio ai topos più recenti del genere (il gay che non sa dichiararsi). Niente di nuovo sotto il sole, ma ci sono una cura formale meno sciatta del solito e la volontà di imbastire un prodotto meno scontato nonostante i presupposti più che scontati, sulla scia accennata nell’irrisolto ed incompiuto benché carino Sapore di te.

 

Il cast ha qualche problema di credibilità anagrafica (Solfrizzi e Pasotti possono dimostrare la stessa età?) o squisitamente logica (perché Osvart dovrebbe sposare Memphis?), ma è all’altezza della commedia. Del quintetto principale, merita una nota il citato Pasotti per il lavoro sulla sensibilità del personaggio. Nel parco dei caratteristi non sbaglia nessuno ed è il vero punto di forza della commedia: a parte la vivace Minaccioni e l’inconsueta Spada, lodi sperticate alle strepitose performance di Rossi (il petulante marito di Rocca), Tortora e Fiorentini (lo zio ladro e la mamma di annalonghiana memoria di Memphis).

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