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Piccola patria

Regia di Alessandro Rossetto vedi scheda film

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La recensione su Piccola patria

di lorenzodg
8 stelle

     “Piccola Patria” (2013) è il primo lungometraggio del regista e sceneggiatore padovano  Alessandro Rossetto.

      In un microcosmo in disparte e lontano dal cerchio s’annida, come non mai, il trambusto desolante, cadaverico, postumo, disperato e defecante del Paese che fu in un nord-est esaltato e in goduria perenne per una scissione ‘veneta’ ancora osannata e mentore di politiche di blasfemia totale. Il centro del gioco di ‘merda’ perché di quella si parla è in un angolo che dall’alto appena si vede, un piccolo luogo abitativo, una roulotte tra un maneggio di cavalli e un ristorante-albergo, di quei luoghi che desolatamente non carpiamo quando si corre senza sosta in auto o si pernotta in fuga di ritorno in un mondo arricchito contornato da una putrefatta desolazione. Ville, villini, traffico e strade, antenne e bastioni, giardini e scarichi, uomini lontani e microstorie vicinissime. E’ il paese dei balocchi al rovescio, un miscuglio di demenza collettiva nel mentre gli stranieri che sono in ansia di arrivare (chi sa dove) s’arrabattano su quello che è un tripudio di finta ricchezza e di ovattazione perdurante nel circolo di qualche ‘eccelso’ orante di vanagloria inchiodata ad ascoltari seduti e plaudenti mentre degustano (con sano pietismo morale) il rimasto cibo tra i resti misfatti di un Paese in putrefazione. E l’apertura ingigantita in tono roboante sopra il paesaggio rurale-moderno di un strudel post-padano e di un ritrovo quadrupede pre-biologico. Questo mondo in miniatura tra lordame vero e quello imputridito di una società megalomane che non vede nulla e tanto meno quello che più vicino non è di una fattoria di scarico di puzza di letame e di sterco di cavallo. In una fattoria prossima al rigonfiamento di odori sporchi dove il lavoro di ‘albanesi’ non ammette mezze misure e in quel ‘spalare’ c’è il riconoscimento a specchio di generazione svenduuta che rivendica amore e comprensione e isolata di putrefazione detratta s’accascia (senza speranza) nel facil modo di un sesso sempre in vendita per denaro e vili smerci di corpi trasudato di sporcizie acquisite. E la spesa di un paese derelitto che offre come dispetto ad un successo insperato la vita facile senza reticenze di un lavoro sempre più sporco e di un nero quasi mai da differenziare.

      In un nord-est pieno di illusioni libertarie e seccessioni da vezzeggiativi politichesi, Lucia e Renata vivono senza rendita cospicua ma al minimo, senza profitto dignitoso, in un albergo come cameriere e soffocate da inganni reciproci, sotterfugi ipocriti e un fidanzato che si usa, sbatte e sputa le sue voglie con un bisogno d’amore mentre chi vede spera solo nei soldi. Solo soldi, gusto becero ma salutare per donne in conflitto (che vogliono cercarsi ma non si trovano mai) e maschi che hanno mansioni di routine dove il guardare altri rende qualcosa e aggiusta le rendine di gruppi familiari sbrindellati con puro egoismo. Il sesso viene confuso e le facce arroganti e intristite di tutti accomodano il giusto conto senza avere conti da spartire (veramente). Chi si serve degli altri e chi di altri si serve. E’ pura illusione, è solo conflitto interiore che viene amaramente espresso in una routine erotica monca, avvilente e tremante. Denaro per fuggire e sguardi per incrociarsi. Epilogo dissodante ma con colture già avvelenate. Il Paese in grande è nella ‘piccola patria’ che ha smanie di grandezze ma che affoga in un latrame di vergogna miserevole.

     ‘Perché punta una pistola?’. Tutto in un dramma si ripercuote nel dolore fisico e in un arrendersi senza posa. La pistola può dare forza ma il destino di ognuno è tra l’albergo in nero e il nero catrame di quadrupedi che defecano. Un clamore di ognuno, una pallottola che aspetta di partire. Un film finzione che sbatte contro i nostri occhi come un documentario dissonante, assonante e clamorosamente accorato nel silenzio assordante. La provincia italiana, il provincialismo gretto: i mostri di rara ironia italica sono sfilacciati, carnali, spettrali e alquanto puzzolenti (dentro). E’ la separazione dai tutti. Il fuori che si vede è consumato di ogni cosa.

     Inizio veramente (s)travolgente con una panoramica e una perpendicolarità di ripresa quasi scioccante con un affossare poi lo sguardo verso gli ambienti di riferimento con la suggestiva cantata de ‘L’acqua ze morta’ con coralità armonica dalla voce di Maria Roveran (attrice del film che ha scritto i test)  e anche con musiche del cantante Bepi De Marzi irrorando la pellicola di una tradizione popolare. Anche lungo il percorso della storia arrivano irruenti e morbide le voci dialettali (in sottotitoli in italiano) fino al finale (nei titoli di coda) che si chiude con forza e con voce veemente della Roveran con ‘Joska la rossa’. Un circolo di voci, di canti e di cadenze dimenticate che danno al film una connotazione precisa e una peculiarità intrigante.

     Convincenti le prove degli attori: tutti da Maria Roveran (Luisa), già ricordata sopra, a Roberta Da Soller (Renata), da Vladimir Doda (Bilal) a Diego Ribon (Rino Menon), da Mirko Artuso (Franco) a Lucia Mascino (Anna) fino a Giulio Brogi (nella parte del vecchio).

      La regia di Alessandro Rossetto è di indubbia capacità documentaristica: suoi luoghi, i particolari, l’insieme, i visi, il controluce e il buio; mai immagini di compiacimento fino alla pioggia e alle gocce mentre un barile abbandonato raccoglie resti e usi umani.

     Voto: 7½.  

 

     (ps: 'ultimo'  scritto sul sito. non si vuole nessuna utilità e commento pro forma. Grazie)

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