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La scala a chiocciola

Regia di Robert Siodmak vedi scheda film

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La recensione su La scala a chiocciola

di darkglobe
6 stelle

La scala a chiocciola è un film che mostra pienamente la matrice espressionista del regista per il tono sottilmente allucinato della narrazione.

Noir di notevole suspense, datato 1946, tratto dal romanzo Some Must Watch di Ethel Lina White e diretto da Robert Siodmak, multiforme regista tedesco di inizio secolo, emigrato negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni naziste. Siodmak era un regista che dimostrò nel tempo una duttilità incredibile, nel disinvolto passaggio dal muto al sonoro, dal genere drammatico alla commedia, dai b-movies ai classiconi hollywoodiani della Universal.

Protagonista de La scala a chiocciola, film ambientato nei primi del '900 in una cittadina del New England, è Helen Capel (interpretata da Dorothy McGuire) ragazza affetta da mutismo causato da un trauma psicologico. Helen fa da dama di compagnia all'anziana signora Warren (Ethel Barrymore), piuttosto malandata ma dal carattere arcigno, nonché madre di due fratelli che si detestano: sono il figliastro professor Albert Warren (George Brent) ed il donnaiolo Steve Warren (Gordon Oliver), che corteggia Blanche (Rhonda Fleming), la bella segretaria (ed ex amante) del primo.
Helen, innamorata e ricambiata dal Dott. Parry (Kent Smith), che vorrebbe guarirla, viene ripetutamente invitata ad allontanarsi da casa dalla anziana donna, che teme per la sua sorte. Uno psicopatico sta infatti compiendo da tempo una serie di delitti le cui vittime sono ragazze della cittadina afflitte da problemi fisici. L’assassino, a detta dell’ispettore di zona, probabilmente si aggira nei pressi della abitazione. Mentre Helen si dirige in cantina alla ricerca di Blanche, scopre il cadavere della segretaria, intenzionata a lasciare l’abitazione dopo un litigio con Steve, strangolata purtroppo dallo psicopatico.

La scala a chiocciola è un film che mostra pienamente la matrice espressionista del regista, per il tono sottilmente allucinato della narrazione. I comportamenti al limite del delirio dell’anziana donna che conosce i fatti senza che nessuno all’apparenza glieli racconti sono sintomatici al pari dell’incubo onirico di Helen che sogna il matrimonio col suo dottor Parry, nel quale però la gioia sfocia in angoscia per la sua impossibilità di pronunciare il sì. Ma la matrice espressionista si ritrova anche nel simbolismo esasperato degli oggetti (la scala ripetutamente percorsa quale attraversamento continuo dal controllo morale agli inferi dell’orrore privo di inibizioni oppure le candele che si spengono sistematicamente come a presagire un pericolo imminente); e ancora in un uso della mdp che gioca molto sulla focalizzazione delle espressioni del viso dei personaggi o si spinge fino ai primi piani dell’occhio dell’assassino, il quale visualizza in via deformata le vittime come ad esempio il volto di Helen privo della bocca.

L’approfondimento psicologico dei personaggi è sicuramente buono, nonostante lo stile recitativo mostri un po’ il segno del tempo per il tono a volte ingenuamente enfatico. Sebbene tutti gli elementi paiano far convergere i sospetti sul personaggio più scapestrato, è sorprendente scoprire come l’identità del mostro si nasconda dietro l’apparente normalità garantita dal riconoscimento sociale del professionista, quest'ultimo mosso piuttosto da evidenti ideali nazisti di purezza della razza che inducono all’eliminazione fisica di tutto ciò che sia imperfetto, anomalo, disarmonico. Si noti come l'ultimo omicidio spezzi il criterio della purezza estetica o probabilmente espanda quello della perfezione fisica a quello di una presunta integrità morale.
Il mito della supremazia riecheggia anche nel complicato rapporto tra il deceduto marito-padrone, la moglie e i figli in cui ricicla il tema dell’uso delle armi per le quali Albert e Steve appaiono inadatti e quello della forza fisica come criterio discriminante tra gli scelti e i reietti.

Da notare come l’iniziale messa in scena sia ambientata in una sala cinematografica che proietta un film sonorizzato da una pianista e portato energicamente avanti a mano dal macchinista, che introduce con un artificio diegetico quanto poi accadrà (la muta guarda impaurita un film muto su un assassino); segue un attraversamento amoroso in calesse per le campagne ma alla fine tutto collassa in un’unità spazio-temporale tra le pareti della villa e i suoi 3 piani fisici, con la scala a collegarli e a trasporre i protagonisti dall’uno all’altro. Il primo piano a rappresentare l’immanenza della madre-padrona, l’anima compassionevole verso la povera ragazza muta da un lato e dall’altro però l’essere umano che alimenta il rimorso dei propri figli per la loro presunta inadeguatezza; il piano terra come apparenza della mediocre normalità della vita, fatta di cani da accarezzare, cameriere brontolanti attaccate alla bottiglia e professionisti che oscillano tra lavoro e confortevoli poltrone; e infine la cantina buia quale luogo del subconscio nascosto e degli inconfessabili fantasmi della mente.

Si sente un po' la mancanza della maliziosa ironia tipica dei lavori di Hitchcock, tanto che il film appare forse un po' monocorde nella sua evoluzione narrativa, mentre apprezzabile è il ricorso al “metodo” Siodmak, basato sull'utilizzo di lunghi ed ininterrotti piani sequenza che in qualche modo possano facilitare l'immersione dello spettatore nell'atmosfera di ansia che pervade il film.

Rimarcabile il sapido uso dei chiaroscuri, con la fotografia di Nicholas Musuraca a tratti spettacolare per inquadrature e giochi di luce, sempre in grado di esaltare le atmosfere di suspense e con un gusto della composizione e dell’inquadratura prospettica che troverà negli anni pochissimi altri riferimenti di pari livello.

In conclusione un bel noir che però, come si scriveva, ha perso parte del suo smalto nonostante innumerevoli elementi di originalità rispetto ai canoni hollywoodiani di genere.

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