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Sapore di te

Regia di Carlo Vanzina vedi scheda film

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La recensione su Sapore di te

di LorCio
5 stelle

I mille pregiudizi che covavo di fronte all’ultimo prodotto dei fratelli Vanzina non mi hanno impedito di dirigermi stoicamente verso la vuotissima sala in cui si proiettava questo Sapore di te. Si sa, il film vorrebbe riproporre sensazioni ed atmosfere di quello che, a tutt’oggi, resta il miglior lavoro dei fratelli, quel Sapore di mare che riuscì a trovare un affettuoso equilibrio tra nostalgia musicarella, commedia vacanziera e romanzetto-etto-etto di formazione. Ora, il discorso è complesso e allo stesso tempo semplicissimo: Carlo ed Enrico hanno realizzato un’abbondante trentina di film in quasi quarant’anni di carriera, lavorano a ritmi importanti (due uscite all’anno sono tante nel nostro attuale sistema cinematografico) e la qualità ne risente quasi sempre, perché le prove mediocri sono sicuramente superiori rispetto a quelle buone o perlomeno decenti (a parte il citato Sapore, considero i loro prodotti più riusciti Vacanze di Natale, Il pranzo della domenica e per certi versi Tre colonne in cronaca: insomma, ne azzeccano uno ogni dieci anni). Più che al cinema della commedia all’italiana a cui dicono di rifarsi, i nostri sono la naturale prosecuzione del mondo di Marino Girolami e Bruno Corbucci, con il guaio che si lasciano travolgere dall’ambizione e dalla pretenziosità. Ne sono esempi i loro pessimi film degli ultimi dieci anni: pretese di critica sociale (In questo mondo di ladri, La vita è una cosa meravigliosa, Buona giornata), smanie da commedia sofisticata (Ti presento un amico, Ex – Amici come prima!), revival più che evitabili (Eccezziunale veramente 2, Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata).

 

Finita la manfrina contra Vanzinas, mi sputtano: secondo me, Sapore di te ha qualcosa da dire. È un film fragilissimo, pieno di situazioni prevedibili, assolutamente risaputo. Però sincero, onesto, ruffiano quanto basta per coinvolgere, un film popolare in un senso antico prodotto da artigiani che, quando vogliono, sanno fare il proprio lavoro. Recitato male dai più giovani malserviti da un copione pieno di banalità sentimentali: rimandati l’onnipresente Serena Autieri, l’improponibile Paolo Conticini, Matteo Leoni, la trentenne Katy Saunders che fa la diciottenne da dieci anni, Virginie Marsan che non è altro che un desiderabile corpo; Giorgio Pasotti e Martina Stella senza nerbo; salverei Eugenio Franceschini, che è una spanna sopra gli altri e avrà un bel futuro. D’altro canto, è ben sostenuto dai più esperti alle prese con parti da caratteristi (quali, tra l’altro, dovrebbero essere senza ambizioni di protagonismo): il grande Maurizio Mattioli, Nancy Brilli, Valentina Sperlì, ma occhio ad alcune battute di Vincenzo Salemme, onorevole craxiano a cui piace ballare come a De Michelis, come “si’ ‘na zecca, come i radicali!” o “io ti ho fatto entrare nel mondo del cinema, Pupella Maggio potrebbe denunciarmi”.

 

Attraverso una narrazione polifonica, i Vanzina raccontano gli anni ottanta dal loro punto di vista, cioè senza traumi (se non sentimentali), senza problemi (al massimo due arresti tipici da borghesia), senza discussioni (se non le didascaliche schermaglie tra una comunista hippy chic e la brutta copia di un cumenda milanese: quanto ci manchi, Guido Nicheli), in un’atmosfera quasi fuori dal tempo che vorrebbe raccontare. E allora? E allora, incredibilmente, ci sanno fare, perché riescono quasi nell’impossibile impresa di raggiungere una parvenza di quell’equilibrio già ottenuto con Sapore di mare. Il malinconico finale contemporaneo con Gino Paoli (rieccolo) che canta la struggente Una lunga storia d’amore (già colonna sonora dell’erotico anni ottanta Una donna allo specchio) fa il paio con Celeste nostalgia di Cocciante del 1983. Non sarà niente di che, però la sorpresa (piccola, piccola) ci sta e le due stelle che avevo intenzione di dare per le visibili fragilità e la prevedibilità della messinscena, ma stavolta i Vanzina si meritano la sufficienza.

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