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Rocky

Regia di John G. Avildsen vedi scheda film

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La recensione su Rocky

di Texano98
8 stelle

Rocky Balboa: basta nominarlo e i pensieri vanno spontaneamente lì, alla Philadelphia a cavallo fra il 1975 e il 1976. Appare inconsciamente come un autentico pezzo d’America, come quello visto in Mean Streets o ne Il cacciatore. All’epoca, però, Sylvester Stallone era ancora sconosciuto, nel nostro mondo così come in quello abitato dal “bullo di periferia” da lui immaginato. Erano sconosciuti anche Mickey, Paulie, Gasco e Adriana (Adrien, il nome americano): piccole pedine intercambiabili e nient’altro, prima dell’inizio del film. Non ho citato e parlerò poco di boxe, perché sono proprio le sfaccettature umane a costituire il perno del film: ci basti pensare ai capitoli successivi, dove sarà la spettacolarità a prendere il sopravvento, sradicando le perle che avevano reso notevole il primo Rocky.
John G. Avildsen e Stallone irrompono inconsapevolmente nei cinema a ridosso di Taxi Driver, e come nel capolavoro di Scorsese vediamo una città china su se stessa, senza un bagliore di luce. Paulie si guadagna da vivere facendo il macellaio in una filiera,  neanche a dirlo è praticamente un alcolizzato. Né ammirevole né condannabile, semplicemente umano, pieno della frustrazione di chi è vittima e al tempo stesso carnefice di se stesso. Anche Adriana non è certo felice, eppure nel suo silenzio forzato sembra resistere, forse attendendo di uscire dal proprio mondo e alzare gli occhi a quello vero che la circonda. Rocky vive vicino a loro e ad altre migliaia di figure smorte, vagando per le strade di Philadelphia e spezzando pollici per conto di Gasco, tirapiedi di un mafioso della zona. Rocky incassa la paga, va in giro con la sua pallina di gomma e poi entra nella palestra di Mickey, dove cerca una speranza; eccolo lì, il vecchio saggio del film, con la pellaccia dura che ha maturato per sopravvivere in un paese senza pietà. I sogni a Philadelphia sfiorano negozi e fabbriche, ma per afferrarli bisogna sputare sangue, tutti sanno che niente è regalato. O stai al gioco o il tuo posto è lì, in un bar, a fare compagnia a Paulie e alla sua birra da quattro soldi.
Eccoci dunque ad Apollo Creed, l’imprevedibile mano del destino: il sogno americano per antonomasia servito su un piatto d’argento. Il prescelto, ovviamente, è il nostro Rocky – la luce del film che cambierà le sorti dei suoi cari – che lentamente capiamo di ammirare. Perché? Perché vive come noi alla ricerca di qualcosa, ma sopratutto perché è un bravo ragazzo (recupera per strada bambine che dicono parolacce e le riporta a casa, fa la corte a una ragazza timida e non a una donna-trofeo), Rocky è insomma l’antidoto alla nostra ombra, l’illusione – effimera, certo – che al mondo i buoni e gli ingenui possano farcela contro tutti.
La regia quadrata di Avildsen riprende le strade umide e piene di riflessi di Philadelphia, accompagnato da poche semplici musiche che incollano lo spettatore allo schermo. Si scatena lo spirito della rivalsa, una forza che scavalca gli autori ed è inarrestabile poiché archetipica, risiedente in ogni uomo. Così arriva la corsa per le strade e poi l’esultanza sulle (ora) famose gradinate di Philadelphia, con il fermo immagine sulla mascella irregolare di Stallone: l’emblema di un film spontaneo, dalle immagini poco levigate. Il primo Rocky è un gioiello grezzo, pregno di piccole sbavature che gli conferiscono il sapore di ciò che autentico. Una storia di buoni sentimenti, certo, ma che non mente riguardo alla disillusione che aleggia per le strade di una qualsiasi città industriale americana, una a simbolo di centinaia. Anche il tanto atteso scontro con Apollo Creed non è memorabile a livello d’azione – Scorsese, qui, è difficile da raggiungere – ma si ricorda per il momento in cui Rocky chiede a Mickey di aprirgli l’occhio tumefatto, o ancor di più quando Creed, arrivato estenuato al penultimo round, guarda il suo avversario con occhi spenti ed esterrefatti, e lui è ancora in piedi, pronto a battersi per l’ultimo assalto alla vetta. E’ in quel momento che Davide giunge alla stessa altezza di Golia – o, se vogliamo, Apollo precipita nei bassifondi da cui proviene Rocky; i due finiscono per combattere come animali in gabbia, senza distinzione fra povero e potente.
L’ultima campanella suona e Creed vince ai punti, ma nessuno lo ascolta: è caduto dal trono. Rocky ignora i giornalisti e cerca la sua amata, iniziando a gridare… grida e grida senza fiato, in perfetto equilibrio fra fiaba, commedia e dramma. “Adriana!”

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