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Quinto potere

Regia di Sidney Lumet vedi scheda film

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La recensione su Quinto potere

di michemar
9 stelle

Che un giorno, molto tempo dopo, i Salvini e i Grillo andassero in televisione ad urlare contro lo stato delle cose Sidney Lumet non se lo sarebbe mai e poi mai immaginato. Certo, il punto di partenza e i motivi che spingono Howard Beale, un anchorman in piena fase delirante ed autoesaltante, a fare il predicatore e a sollevar folle di telespettatori inebetiti e narcotizzati dalle inutili e stupide trasmissioni e a spingerli a protestare insieme e come lui, sono ben diversi da ciò che hanno mosso in questi tempi i due animali della politica italiana. Beale non riesce più a catalizzare con le sue trasmissioni l’attenzione degli spettatori e quindi le entrate finanziarie delle pubblicità, che sappiamo correre solo verso intrattenimenti ricchi di pubblico e il suo inaspettato licenziamento dalla rete lo porta verso una folle depressione psicologica e alla ribellione, che da personale diventa collettiva, quando riesce a convincere milioni di telespettatori alla insurrezione verbale: "Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!". Tutti sui balconi, sulle scale di emergenza ad urlare la loro delusione e il sospetto di essere stati raggirati dalla tante inutili chiacchiere ascoltate ripetutamente dal piccolo schermo.

 

L’intento chiaro e lampante di uno dei cineasti più graffianti e spietati di Hollywood, di nome Sidney Lumet, è quello di mettere alla berlina la televisione, come “sistema” e come potere finanziario. Le discussioni feroci tra i dirigenti e i responsabili ne sono una dimostrazione e tutto ciò risulta ancor più chiaro allorquando Lumet ci dipinge Diana Christensen, una donna in carriera, spietata e arrivista, che non bada né a chi travolge né a chi pensa di poter amare. La splendida Faye Dunaway riesce ad imprimere il carattere cattivo necessario a questo personaggio, impersonando la responsabile delle trasmissioni che non si accorge mai di vivere se non in funzione del successo personale delle sue rubriche, che vive solo badando ai report dello share della sera precedente.

 

La TV di oggi non è cambiata, basta accendere quel maledetto schermo che si trova in quasi tutte le stanze delle nostre case e ci accorgiamo immediatamente dell’infimo livello di ciò che viene trasmesso e dello scopo (o scoop?) per cui vengono allestite: attirare pubblico e quindi spot che significano fatturato. Ma quando un “pazzo” ha il coraggio di urlare in maniera esagitata che ha esaurito tutte le “cazzate” che ha detto fino a quel giorno e che tutto va male, tutto va a rotoli. “Abbiamo una crisi. Molti non hanno un lavoro, e chi ce l'ha vive con la paura di perderlo. Il potere d'acquisto del dollaro è zero. Le banche stanno fallendo, i negozianti hanno il fucile nascosto sotto il banco, i teppisti scorrazzano per le strade e non c'è nessuno che sappia cosa fare e non se ne vede la fine. Sappiamo che l'aria ormai è irrespirabile e che il nostro cibo è immangiabile. Stiamo seduti a guardare la TV mentre il nostro telecronista locale ci dice che oggi ci sono stati 15 omicidi e 63 reati di violenza come se tutto questo fosse normale.” Sembra oggi (e il film è del ’76!) non solo per il contenuto ma anche perché inevitabilmente ci fa venire in mente i predicatori politici che vediamo più volte al giorno e tutti i giorni nella nostra TV.

 

Lumet è così spietatamente sarcastico che, mescolando spettacolo ed estremismo politico americano, ci fa assistere al monologo forse più importante del film, quando il magnate Arthur Jensen (finalmente un ruolo importante anche se breve per il bravo Ned Beatty) spiega che non esistono più popoli, razze e nazioni, perché da molto tempo esiste soltanto un Unico, un Solo Sistema di Sistemi: il Sistema Internazionale Valutario. Insomma non esiste più il concetto di DEMOCRAZIA ma esistono solo e soltanto le SOCIETA’ PER AZIONI. Punto. Da qui ne scaturisce tutto il resto.

 

Sidney Lumet ci ha servito un film raggelante, girato alla perfezione e senza pietismi, senza raggiri e i grandi attori che chiamò al suo servizio sono tutti eccezionali: dalla Dunaway di cui già detto, all’invecchiato William Holden, che magari potrà sembrare un tantino bolso per quel ruolo, al sempre eccellente Robert Duvall, allo strepitoso (non ci sono altri termini adatti) Peter Finch, che dà l’ennesima dimostrazione del suo enorme valore, una performance da brividi.

 

Questo film non ha età ed è un vero capolavoro come diversi altri del grande regista, che spesso, da “La parola ai giurati”, a “L'uomo del banco dei pegni”, a “La collina del disonore”, a “Quel pomeriggio di un giorno da cani” e tantissimi altri, per finire con il meraviglioso “Onora il padre e la madre” (che eredità ci ha lasciato!), ha mostrato la cattiveria dell’uomo e tanti personaggi borderline, ma sempre molto umani, quasi con una mano tesa a queste persone per far sì che lo spettatore sia in grado di comprendere i loro strampalati comportamenti. Grande, grande film, che l’American Film Institute ha giustamente inserito tra i migliori 100 film statunitensi di tutti i tempi.

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