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Qualcosa di travolgente

Regia di Jonathan Demme vedi scheda film

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La recensione su Qualcosa di travolgente

di lorenzodg
8 stelle

Qualcosa di travolgente” (Something Wild, 1986) è il nono lungometraggio del regista newyorkese Jonathan Demme. Prima di essere ‘travolto’ dal successo planetario de “Il silenzio degli innocenti” e dall’impegno (Oscar) di “Philadelphia”, si sbizzarriva in argomentazioni sociali con stilizzazioni glamour e incidenze soporifere. Commedia di marca e di giro con un gusto di colori forti fino al rosso sangue: con una ripresa avvolgente e persuasiva, Demme tende sempre a farti entrare nei personaggi con un certo disincanto ma poi ti porta dove desidera (meglio desiderante): e i risvolti della storia non sono sempre ad agio per lo spettatore.
    Siamo dalle parti di un film di genere macchiato da sapori tipici degli anni ottanta. Un gioioso modo di porsi da subito. Un giovane che lavora, una segretaria che gestisce la vita ordinaria, un noioso modo di andare avanti, un pasto sotto al bar, un pagamento in forse e un incontro fortuito. In poche battute il film entra nel vivo di uno sguardo-sorriso che fa cambiare la vita di Charlie. Un aiuto e un imbarazzo(to) in meno nello scorrere di una routine quotidiana. Lulu e Charlie si guardano bene subito ma è il boy-office ad avere il magnete nelle gambe: viene attratto da qualcosa di diverso, di strano e di incompiuto (fino ad oggi). Rincorre Lulu e ottiene un passaggio in auto. Ed è subito un miscuglio di generi finti moderni ma riciclati e ricolorati secondo il modo (arcobanelizzatato) di fare cinema (o meglio di fare vita) secondo Demme. La sua cinepresa non fa camminare i personaggi ma li segue’ li pedina con calma, li segue con voglia di scoprirne i segreti. E da lì si insinua nei rimasugli interiori e nelle scompiglio nate sociali. E sì, proprio quello che si nota, il regista newyorkese con un film di commedia (commisurata) e di allegria (espansiva) ridà il gusto di analizzare il contro-che vive sulla strada e le istanze sociali (che sindacalismo di bassa considerazione e di forte autoironia), di personaggi sui generis: è ovvio che il suo gusto preferisce Lulu e i suoi tic poco convenzionali ma convenienti all’uopo e alla epoque-deja-vu di una città vistosamente colorata. Tutto in superficie per ridacchiare del mondo facile e del sorso subito in gola. Ed ecco che il sesso fa subito capolino con un stantio modo e una forzatura ironizzante della forte mascolinità che si vede chiusa dentro le manette attaccate ai metalli di un letto. La bella Lulu non perde tempo (ci mancherebbe) e quello che di solito si appassisce qui non continua in sordina ma vuole subito il resto..quello di ammiccare a un tipo film (di altra luce). Comunque con sagacia l’incontro Lulu-Charlie (o val bene il contrario) prosegue subito in un amplesso megaveloce e in una telefonata al capo seriosa, stanante e poco vogliosa. Un (s)travolgimento è oramai la vita semplice e tediosa del bel Charlie tutto bar e ufficio. La sua famiglia si incontra con la sua segretaria che ricalca il cliché di una donna in (piccola) carriera e di una città in (grande) corsa dove tutto il visibile è risibile, e dopo tutto il successo è essere eccessivi, frastornati e soporiferi. Da ciò che si desidera a ciò che vuoi veramente: da ciò la schermaglia leggiadra (e voilazzante) di Lulu incontra il suo complementare per chiudere il suo giro. Lo specchio di Charlie trova in lulu il complementare nullo di una vita schigfosetta e piena di insulsaggine. Il successo, la vita in carruera per chi? Per quanto? Demme si prende in gioco di tutti,..dei newyorkesi (e quindi di se stesso), dei carrieristi, dei bei boys, e con una ragazza mal-posta in mezzo all’inquadratura scompone tutto il meccanismo e si (ci) porta a letto il primo che incontra. La faccia di Charlie mentre Lulu è la sua parte sopra è tutto un programma..un vezzo antico di godimento filmico con tempi e strutture da videoclip (im)modernizzato e spunti di cinema documentary. Una pellicola raffinata anche nel linguaggio un po’ oltre (ma mai eccessivo), nei corpi esposti (ma mai ripugnanti), nei dialoghi effervescenti (ma mai banali), negli ambienti che vuoi (mai svuotati), nelle distanze giuste (mai oppressive), negli incontri di strada (mai buttati), nei cerchi di vita (mai salutata). Demme si prende in gioco e inveisce (in modo ridicolo) contro il bel mondo che conosce e che vive quotidianamente: in fondo la ridicolaggine è in ogni nostro comportamento. Un incontro fa trasmettere un’energia particolare a Charlie che l’ordinario e lo straordinario coincidono, si confondono, si annullano, si prendono e si baciano. Ecco lo sguardo di Charlie è appunto tutto un programma, un programma vivo (nel sogno di una strana vita) entrato dentro il suo piccolo mondo di carte e di notifiche. Uno sguardo che lo spettatore coglie e la sua sorpresa è la nostra per avere sopra una donna che non aspettava e fare sesso in un modo che tanto non aspettava altra. Le sue manette costringono a seguire l’ (il)logico itinerario della sua amica che vuole non solo quello ma anche il resto. Un film generazionale dove una generazione tenta di liberarsi per andare incontro a un mondo femminile già in corsa e liberato da tutto. Dove il vestito, gli occhiali, le forme, la camminata somigliano a un fotoromanzo ricalcato e ad un ballo di soubrette senza pubblico pagante. Il regista ci porta in luoghi e larghi prediletti adocchiano e andando a fianco del modo provocatorio e incalzante della bella Lulu. Un ‘fuori orario’ in pieno giorno (il contraltare del becero e schifoso mondo notturno), dove il visibile è ridicolo e dove il ridicolo diventa vero. Una città frastornata, impazzita e in balia di eventi singoli, a due, e dove il casuale (in presa diretta) diventa un orologio di sfogo per altri. Un incontro, chi sa quali e quanti altri. Demme segue il suo (incontro) e ne fa voce al pubblico in una rutilante e fulminante presa in giro di tutto quello che vi è vicino (che non conosciamo, non sentiamo ma odoriamo di narcisismo irridente).
    Charlie e Lulu mentre si strattonano, si baciano, si porgono (con devianze) si vedono nella telefonata al capo (che incredulo) non pensa minimamente ciò che il suo e servile Charlie stia facendo. E si che l’incontro diventa acerbo sogno e sfogo maldicente con manette: è solo ‘ironicaeroticainfilzagrande’, una macchia nello stile ufficio-so di Charlie ma la sua vita vuole e può cambiare. Il resto è routine da buttare, da schivare e da odiare. Ma perché non buttarsi…
    Il brillante corso della cinematografia di Demme trova sempre appigli anticonvenzionali, mai semplici o di facile alchimia: un gioco di incontri, di persone e di facce diventa conoscenza dell’umana virtù (becera virtù). In fondo anche i due film (ricordati all’inizio) che tutti ricordano indagano, scoprono e smascherano (in modo assolutamente personalizzante) persone che sono vicine, successi tediosi, vie stantie, malattie rifiutate, cervelli imbalsamati. Il mondo di Demme si chiude senza forzature tra l’espresso e l’inespresso, la voracità e il fugace, la vista e il buio di volti ridenti, scherzosi, barcamenanti, odiosi e trasformati. La città ridà a tutti tutto questo e anche oltre. Demme fa il verso ilare a ciò che Scorsese ha fatto dopo molti anni. Il suo Hugo, Jonathan l’aveva già trovato nel cinema di strada, nelle vie inespresse e nei volti cercati per caso, Basta seguire uno di loro, casualmente e la bella Lulu può incontrare Charlie (un nome che ritorna chi sa se solo casualmente per fare un altro film…a proposito di Charlie..).
    Ma tutto questo può finire..certo il sogno di un nome inventato ed ecco che Charlie scopre il vero nome di Lulu (una Cyndi Lauper in versione super-popcorn): in realtà è Audrey Hankel (della Pennsylvania) ed ha un marito appena uscito di galera. Ray Sinclair è deciso a riprendersi l’amore (o quello che ne rimane) della bella non più Lulu. Da qui in poi il film prende una piega più gialla e i colori diventano a tinte (più) forti e i linguaggi sopra-eccitati. L’incontro-scontro è forte e lo scambio oltremisura (rosso): Ray usa linguaggi diretti come pugni e ‘il figlio di puttana’ a Charlie è solo l’epilogo di una lunga fuga dei due. Un ‘ontheroad’ particolare e pieno di scatti, un verso contro la tipologia di genere, una fionda fino alla città di tutti i generi (New York). Lo scontro finale è di una durezza inaspettata e il Charlie ragazzo sempliciotto si disorienta fino in fondo. Il percorso narrativo di Demme tocca tutto il chiaroscuro americano con i suoi modi di fare con atteggiamenti mai banali. Il vivere quotidiano diventa indagine sociale e i racconti non sono mai fini a se stessi: la politica degli ultimi, i racconti, gli afroamericani, le rapine e il gioco dei linguaggi sono volutamente inseriti in un cintesto fintamente gioioso e dolciastro. Tutto appare superficiale ma si scava (non sempre in modo preciso e ficcante) fino in fondo, E gli incontri Ray, Lulu (Audrey), Charlie sono uno specchio sociale di un’America allegrona ma che ha dentro miriade di problematiche irrisolte.
    Il finale (un po’ aggiunto) di un ritrovamento e di un ri-incontro (circolare rispetto all’inizio) davanti al solito posto fa del sogno filmico uno stantio ritrovo tra amici (finisce bene) e un’innamorata rivestita di altro. Sembra un altro film da ricominciare (o lo sguardo preso da un altro film con un’altra Lulu).
“E’ meglio una pecora viva che un leone morto” dice Jeff al suo amico in ufficio (prima di andare via e lasciare il suo ufficio). “E’ stato bello lavorare con te Charlie”.
“Signore non ha pagato”.. “Ma io…”  Ecco Lulu tutta nuova che dà i dollari alla ragazza.
    Mentre una ragazza di colore canta (la stessa) fuori dal locale i due vanno via in auto per un altro passaggio (stavolta di Charlie); scorrono  i titoli di coda (macchiettati e colorati dalla musica).
    Jeff Daniels surreale e convincente nella parte di Charlie; Melanie Griffith (Lulu/Audrey) appare in ottima forma: la sua verve si ripercuote in lungo e in largo. Un plauso particolare a Ray Liotta (Ray Sinclair) al suo primo vero film: una recitazione di grande effetto (nei modi e nel viso).
    La fotografia intensa e viva è di Tak Fujimoto: ha collaborato in molte pellicole di Demme (tra cui “Il silenzio degli innocenti”); di grande misura la colonna sonora di David Byrne (con il tema “Wild Thing” scritta dal cantautore newyorkese Chip Taylor).
    Regia di Jonathan Demme con bravura riconosciuta.
    Voto: 7½.

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