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Prova d'orchestra

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Prova d'orchestra

di yume
8 stelle

Prova d’orchestra è uno sguardo provocatorio e lucido su un’età confusa, drammaticamente tesa, quella che, sul finire degli anni ’70 del secolo scorso, culminò col delitto Moro.

Paradossale, ma sono proprio gli orchestrali che fino ad un attimo prima hanno messo in subbuglio l’auditorium con rivolte contro il potere del Direttore e della “musica al potere”, lanci di materia indistinta contro il ritratto di Mozart, scritte beffarde sui muri e slogan intonati a gran voce, corpo a corpo reciproci senza esclusione di colpi, ebbene, sono proprio loro, con i loro strumenti, a ridare sacralità a quell’arte, tutti in piedi, una nota dopo l’altra, fra le macerie, in sincronia perfetta, gli archi e gli ottoni, le percussioni e i legni, un’iconostasi di rara felicità compositiva a cui manca solo l’arpa, rimasta in piedi ma tristemente coperta di polvere.

La povera arpista ha reso l’anima al dio della musica, fatta fuori dall’enorme palla d’acciaio che si è abbattuta sulla parete della sala distruggendola. Era una dolce signora cicciottella innamorata del suo strumento, ma traboccava di zucchero e miele, bisognava punirla, quel dio vuole anche sacrifici umani.

scena

Prova d'orchestra (1978): scena

Questo finale così morale, inatteso e sovversivo appartiene al Fellini delle grandi visioni fantastiche sulle opere e i giorni dell’uomo, sulle sue contraddizioni e su quella possibilità di grandezza che l’arte gli regala, soprattutto quando scopre a sue spese che grigia è la materia di cui è fatto il mondo e solo la bellezza lo salverà.

Prova d’orchestra è uno sguardo provocatorio e lucido su un’età confusa, drammaticamente tesa, quella che, sul finire degli anni ’70 del secolo scorso, culminò col delitto Moro.

Ci si chiedeva se fosse ancora possibile credere in qualcosa, dov’erano naufragate le grandi lotte di qualche anno prima, cosa significasse fare ancora cinema.

Osservatore e interprete di quella cesura drammatica, Fellini e il suo modo di non esprimere né approvazione né disapprovazione nei riguardi del proprio oggetto, resero ancor più evidenti i tic mostruosi di un popolo individualista sulla via del degrado antropologico.

L’ambiguità del reale si risolse così in forme solo in apparenza incomprensibili.

Fellini coglieva un frammento qualsiasi della realtà e lo trasformava in allegoria. Era il tratto veloce di matita che schizza sul foglio un’idea, non una figura ma la sua essenza.

La prova di un’orchestra è un momento altamente destrutturato, che acquista forma solo nelle mani di un Direttore. I composti orchestrali che compiranno il rito finale nei loro severi abiti scuri, in simbiosi con il loro strumento, sono anche uomini e donne con tic e miserie, manie e fobie.

Quello che diventeranno è ora un indistinto, frammentato e spesso interrotto aggregarsi di suoni, gesti, accordi, che si avvia a comporre un’unità organica e armoniosa, ma quanta fatica!

Come la vita, prima che si giunga al termine.

 

L’aria dei tempi agisce su loro plasmandoli e determinandone le azioni, sfuggire al ritmo della Storia è impossibile, riesce a volte chi ne è già quasi fuori, perciò alla baraonda non partecipano i più anziani, e mentre la gazzarra cresce sembrano ritirarsi in un guscio, attoniti, con il loro strumento.

Un antico oratorio del settecento, ora sala da concerto dalla splendida acustica che l’ Europa tutta c’invidia, il silenzio ovattato, un vecchio copista che dispone spartiti sui leggìi e parla con orgoglio agli spettatori al di là dello schermo dei ritratti alle pareti, delle tombe celebri.

L’incantesimo si spezza quando cominciano a sciamare dentro gli orchestrali.

Chi sbuffa, chi suda, chi mangia un panino, chi dice stupidaggini, chi se ne sta da parte finchè non lo stuzzicano, chi si pavoneggia fra ammiratori di grazie non esattamente musicali.

Di tutto, c’è anche chi prova accordi e tutti sono galvanizzati dalla novità: una troupe televisiva vuol intervistarli. Assiste un sindacalista, il giornalista inizia il suo giro, ognuno esalta le doti del suo strumento.

Quando entra il Direttore, accento e portamento teutonico, modi autoritari, molto autoritari, la prova comincia ma qualcosa non funziona.

Forse il piglio severo del Maestro? Forse una fatale tendenza ad esibirsi quando qualcuno ci guarda? E qui ci sono molti estranei, troppi. C’è l’occhio televisivo, quello sindacale, fuori c’è un mondo che urla, che batte potente sul muro.

E infine lo butta giù.

scena

Prova d'orchestra (1978): scena

E cosa resta? Macerie e polverone, null’altro. Sì, anche la morte che, si sa, spesso colpisce chi non ha colpa.

Quando torna il silenzio Direttore sale sul podio, la necessità di suonare bene il proprio strumento è priorità condivisa, le note si diffondono nell’aria, le parole gravi e profondamente umane del Direttore fanno presa.

Ma appena lo schermo diventa nero il tono cambia, la lingua di Goethe e di Heine torna ad essere quella di Goebbels e Hitler, il film finisce lasciandosi dietro una scia di rimpianto e di stizza, di malinconia ma anche, chissà, di speranza.

Il gusto caricaturale di Fellini dipinge ritratti grotteschi, l’immagine inquietante dell'Italia odierna e passata immersa nel caos si riflette in quel microcosmo, la banalità, la disgustosa mancanza di stile, l’urlo becero che prelude alla violenza sono la morte dell’arte, come risorgere se non con l’ immaginazione?

Non la solita, esuberante e barocca, non la fantasia astratta e opulenta.

Fellini lo definì “filmetto”, 70 minuti poveri, quasi francescani, in uno spazio ristretto, asettico prima, polveroso poi. Ma di poesia grande, quella che si sprigiona e vola in alto anche in uno scenario povero, attraversato dalla violenza, fino a quando gli strumenti riprendono la loro voce e si fondono.

Una stanza, ma potrebbe essere lo sfondo di tutte le guerre, la Biblioteca distrutta di Sarajevo dove Zubin Mehta diresse il Requiem di Mozart o lo spazio siderale delle astronavi di Kubrick che danzano al ritmo dei valzer di Strauss.

Ancora dieci anni e un altro muro grigio crollò in Europa. Un violoncello ai suoi piedi ne celebrò il de profundis.

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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