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Prénom Carmen

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Prénom Carmen

di spopola
4 stelle

Un film “alla maniera di” e come tale non privo di momenti di ammaliante bellezza che rimangono però semplici parentesi dentro a un progetto pieno di irritante velleitarismo, tanto ermetico quanto tedioso negli esiti, che vorrebbe rappresentare un aggiornamento “politicizzato” e poco ortodosso, della tragedia di Carmen aggiornata agli anni ottanta.

Godard è indubbiamente un nome che è stato fondamentale nella mia formazione, un autore così importante e personale da lasciare segni profondi e indelebili nel mio immaginario, eppure nemmeno per lui riesco ad avere una “venerazione assoluta e incondizionata” sempre e comunque per tutto ciò che ha prodotto (è davvero singolare questo mio probabilmente esagerato “spirito critico” che tende spesso a cercare persino il “pelo nell’uovo”, ma non c’è davvero – purtroppo - quasi nessun regista del quale salvo totalmente l’intera opera, cosa questa che potrebbe essere scambiata a volte – ma vi assicuro che non è così – per un eccesso di intransigenza dalla “puzza sotto il naso”). Ed ecco allora che in alcune circostanze le sue intelligenti operazioni “destrutturate” del linguaggio cinematografico, quando mi sono apparse un po’ troppo fini a se stesse e non supportate da una poetica di forte impatto emozionale che le giustificassero (o per lo meno riuscissero a restituire il senso logico della “necessità narrativa”) mi hanno persino infastidito, e qualche volta mi è addirittura capitato di uscire dalla visione con l’insoddisfazione annoiata della delusione. E’ il caso di questo controverso “Prénom Carmen”, contestatissimo (e fischiatissimo) Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1983, che divise da subito in due fazioni ferocemente contrapposte larghissime fette di critica e pubblico. Si ha un bel citare (come da più parti si è fatto) ricercati riferimenti ispirativi fra Beckett e Brecht (due nomi per altro difficilmente conciliabili fra loro, che mi rimane davvero difficile far “convivere” in un insieme logico, tanto sono in antitesi come scrittura e contenuti) per tentare di “alzare il tiro”, cercare di dare “spessore” logico e qualche concretezza in più a questa operazione metacinematografica, che riesce persino a sconcertarmi: forse avranno ragione “lor signori”, ma per me niente di tutto questo è ravvisabile, e rimane solo la povertà tematica e scontata di un riferimento come al solito fortemente “autoriale” - ma una volta tanto poco significativo - che sfocia (ed è ancora un giudizio personale, anche se non del tutto isolato) in uno dei più clamorosi “passi falsi” del regista. Certamente un film “alla maniera di” e come tale, non privo di momenti anche esaltanti di ammaliante bellezza (è sempre Godard a dirigere e la sua “mano” – nel bene e nel male - si avverte anche questa volta, è indubbio e indiscutibile) che rimangono però semplici parentesi all’interno di un progetto fortemente “irrisolto”, denso di irritante velleitarismo, tanto ermetico quanto tedioso negli esiti, che vorrebbe rappresentare un aggiornamento “politicizzato” e decisamente poco ortodosso, della tragedia di Carmen inquadrata in una “cornice” storica posticipata agli anni ottanta (qui una ragazza inquieta e ribelle impegnata in “libere” azioni di terrorismo che ha i seducenti tratti dell’esordiente Marushka Detmers, meteora splendente e sensuale che “ballò” se non proprio una, solo pochissime estati, nonostante la conturbante bellezza e la spregiudicata disponibilità ad interpretare ruoli controversi e “al limite”) che dopo una sparatoria per un tentato furto in banca, si troverà ad amoreggiare - in una casa disabitata sul mare avuta in prestito (per girare un film) dallo zio regista (qui lo stesso Godard) in momentanea crisi esistenziale, autoreclusosi in un manicomio parigino (dal quale però può entrare ed uscire a suo piacimento) - con un poliziotto (e poi a maltrattarlo, come da copione), per negarglisi successivamente e indirizzare le proprie attenzioni e preferenze verso un gangster e un cameriere d’albergo (e sarà per questo uccisa – canonica sorte del personaggio in ogni versione che si rispetti - durante un’altra azione criminosa che “potrebbe essere anche la sequenza girata di un film” in lavorazione). Realizzato con la consueta tecnica “frammentata” (caratteristica peculiare del cinema Godardiano che qui determina però una estremizzazione forse eccessiva del linguaggio, fra intersecazioni visive ed ellissi, che risulta per molti versi irritante) finalizzata ad aumentare la carica provocatoriamente eversiva della proposta, la pellicola si trova invece troppe volte a girare (a vuoto) su se stessa, come una spirale che si avvolge e non si evolve, che nemmeno un uso abbastanza disinvolto dell’erotismo sessualmente espresso, riesce a riscattare dalla monotonia, fra sberleffi un po’ risaputi e sterili e squarci improvvisi che ripropongono gli struggenti Quartetti di Beethoven in squisite esecuzioni “in presa diretta” (dissonanti come le immagini) su aperture intensamente evocative fra “cieli e mari” di inusitata bellezza (un altro tema questo, qui ricorrente con ciclicità ossessiva). Probabilmente, insieme alla splendida fotografia di Raoul Coutard, è proprio il supporto musicale “live” delle preziose composizioni del musicista tedesco la parte più attraente e stimolante dell’intera operazione (della musica di Bizet non c’è volutamente alcuna traccia, se non un lieve accenno quasi irridente all’Habanera, “canticchiata” dentro il manicomio). Il resto infatti risulta semplicemente una omologazione, pedissequa e conforme, a un certo modo di intendere il cinema, così caro al regista, per una volta privato di quella creatività inventiva che determina il necessario “trasporto emotivo”, che qui intenderebbe forse essere così “dolorosamente dissacrante” da risultare persino “divertente” – e sicuramente controcorrente - nella riproposizione pedissequa del gioco delle parti, ma finisce invece per deragliare sovente solo verso lo sbadiglio. A peggiorare ancora il quadro d’insieme, accanto alla Detmers allora diciannovenne (ma il ruolo era stato “pensato” per Isabelle Adjani), troviamo un inespressivo e “inerte” Jacques Bonaffé, decisamente più bravo a masturbarsi sotto la doccia che a “recitare” e a fornire una parvenza di credibilità al suo personaggio.

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