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Flight

Regia di Robert Zemeckis vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Flight

di alan smithee
6 stelle

Con un certo sollievo quasi all'unanimità salutiamo il ritorno di Robert Zemeckis ad una regia più "tradizionale", quella che lo ha reso da quasi un trentennio uno stimato regista di blockbuster "intelligenti", e che la sua un po' sfinente e limitante ultima trilogia (Polar, Beowul, Xmas Carol) girata in modo tradizionale e sadicamente "glassata" da una statica crosta in cartoon, ce lo aveva fatto allontanare dai nostri pensieri più piacevoli.
La forma registica è qui indubbiamente fluida, smagliante, e la prima mezz'ora, quella della drammatica cronaca dettagliatissima dell'incidente aereo è quanto di più ben fatto si possa aver visto in tanti anni di disaster movie con epicentro un aeromobile, tanto che sarà difficile per ognuno di noi, viaggiatori e spettatori, non ripensare a quella terrificante situazione d'emergenza che viene a crearsi, nel film, a bordo del veicolo, in occasione del nostro prossimo viaggio aereo.
Il film tuttavia, nel prosieguo della vicenda, grazie forse ad una sceneggiatura certo ambiziosa, ma tuttavia anche un po' poco accorta nel raccattare qua e là spunti e riflessioni anche plausibili ma un po' affastellate, infarcite di retorica e di una certa ovvietà, rischia di impantanarsi nelle acque melmose di un dramma della dipendenza, dall'alcol, dalla droga, dalle mille tentazioni che affliggono l'uomo reso fragile dagli inevitabili fallimenti della vita.
E' così che si perde la lucidità di un uomo in gamba, di un eroe non certo per caso, persona capace di una impresa definita miracolosa, ma incapace di portare a compimento il ruolo che la maggior parte di tutti noi umani ricopre con la piu' ordinaria naturalezza: quello del marito, del padre, dell'uomo integrato in una vita sociale pratica ed organizzata per quanto ordinaria.
Tutti buoni spunti, belle riflessioni, che tuttavia risultano qui nel film piuttosto mal assemblati, pedanti, retorici come sanno esserlo in modo impeccabile troppo spesso e troppo soventemente senza autocontrollo questi americani così organizzati ed in gamba, ma così ingenui allo stesso tempo.
Quanto poi al fenomeno della dipendenza da alcol e affini basta solo pensare ad un film sorprendente come "Giorni perduti" di Billy Wilder con Ray Milland (ed eravamo nel 1945!!!!) per arrendersi o scoraggiarsi di fronte a tanto ardire (brutti, fuori luogo ed inutili gli accostamenti arditi e raffazzonati tra la vicenda del pilota e quella della ragazza tossica, le cui drammatiche vicende si incrociano guarda un po' proprio nel momento topico del rispettivo epilogo) che si trasforma inesorabilmente in faciloneria ed ostentazione che non fanno onore al pur bravo Zemeckis.
La parte conclusiva, e qui entriamo improvvisamente nei meandri del legal thriller, si salva appena da un colpo di scena per nulla imprevedibile ma anzi sin troppo caramellosamente scontato, grazie alla presenza della sempre eccezionale Melissa Leo, che in soli dieci minuti scarsi riesce ad impadronirsi della scena con il suo splendido volto dolente e sofferto che ameremmo vedere molto più spesso.  
Insomma alla fine pur sempre un Zemeckis ritrovato, che non torna a farci sussultare di piacere e di puro cinema come ai tempi dei deliziosi "All'inseguimento della pietra verde", di "Ritorno al futuro" o di "Chi ha incastrato Rober Rabbit", ma che tuttavia non ci delude come nell'accennata ultima recente trilogia o nel (da qualcuno) rivalutato "Contact".
E tuttavia ancora una occasione in cui il famoso regista non riesce a riaprire dibattiti o a far parlare di sé come ai (bei) tempi del "bipolarismo" cinematografico Forrest Gump/Pulp Fiction (era il lontano '94), che vedeva schierate metà (+1) dei cinefili dalla parte di Zemeckis, mentre l'altra metà (con me incluso) dalla parte di Tarantino. Vinse poi Robert su Quentin, almeno per l'Academy: ci rimasi malissimo, ma da allora in poi continuai a parteggiare quasi sempre ed inequivocabilmente per lo sfidante perdente.

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