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To the Wonder

Regia di Terrence Malick vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su To the Wonder

di M Valdemar
8 stelle

Come una finestra aperta sul Mondo, cristallino anche quando si tinge d’ombra e turbamento, il pensiero di Malick si manifesta potente e arioso. Uno sguardo sul tutto che tutto abbraccia e fa confluire nell’uno; un flusso ininterrotto nel magma-mondo di luci, voci, suoni, odori, sensazioni e percezioni, stimoli e sussulti, dubbi e paure: oggetto del carezzevole vortice indagatore quell’universo misterioso benché conosciuto che è l’Amore.
Una donna e un uomo, il loro attrarsi e respingersi, sfiorarsi per poi fondersi, quel vagare a perdifiato come una sola anima nei luoghi della natura e della mente, del corpo e dello spazio: la grazia di uno stato dei sensi unico è un impetuoso corso di vita - e fatto di vite che si toccano e si perdono - che scorre inesorabile e si ramifica in un complesso di infiniti rivoli, tanti quanti sono gli incroci (im)possibili.
È il normale stato delle cose, in perenne inafferrabile agitazione, nel quale altrettanto normali infiltrazioni intorbidiscono i rapporti facendoli deviare lungo paludosi anfratti illuminati da un’oscurità e una confusione piene e avvolgenti, che sembra possano non avere fine, a meno che non sia “la” fine. Come può l’amore mutare in odio? Come possono un contatto, una carezza, un riflettersi di occhi ed emozioni, suscitare rifiuto laddove prima v’era solo irrinunciabile, cosmico accoglimento?
Già, non ci sono certezze né verità assolute così come è immaginabile avventurarsi in previsioni che hanno la dimensione fallace e menzognera delle profezie o del mentire e fingere, a sé stessi innanzitutto (il prete che vede minato il suo amore per un’entità superiore implora quest’ultima per avere la fede d’un tempo).
Non occorrono certo fiumi di parole, rielaborazioni di materiale narrativo logorato da altre innumerevoli riproposte, e non c’è logicità nel concretare in banale esposizione melodrammatica o stucchevole la (im)pura astrattezza del sentire accettare restituire rinunciare annusare amore.
Sentimento folle e impervio, caduco quanto imperituro, che è organo pulsante e motore dell’esistenza stessa, connesso strettamente con gli elementi del ciclo vitale globale (una foglia cadente che pare leggere nei nostri pensieri, un raggio di sole che ci riscalda, l’avanzare dolce della marea che ci mette di fronte alla bellezza: quante volte la natura guida e rappresenta gli stati d’animo …).
Pertanto il fluire malickiano, denso, armonioso, sinfonico della “storia” - del modo di riprenderla ed accompagnarla per partiture visive-musicali - ha il respiro, il valore, l’energia di un’ispirata, sincera ed affatto invasiva analisi nelle insondabili vastità della struttura umana.
La macchina da presa s’attacca ai corpi, li guarda e li fa volteggiare e librare in volo, in un insieme omogeneo e multiforme di espressioni che è eleganza ritmica ed espansione sensoriale, studio e ricerca, melodia e danza (il collo da cigno incredibilmente bello, non a caso lungamente inquadrato, di una magnifica Olga Kurylenko, è il centro di contatto, equilibrio, relazione tra realtà terrene ed esigenze di sogno e libertà, e fuga).
Terrence Malick, regista, demiurgo, divulgatore, semplicemente non filma. Non dà risposte, non impone né vende (pre)concetti: egli vive nel film stesso; il suo pensiero e le sue idee, filosofie si fanno versi di una (superbamente imperfetta) poesia in movimento.
Poesia che è sfrenata e colma - ma in maniera autentica - di eccessi - di quelli dovuti all’urgenza e all’impeto di quando si crede fortemente in quello che si sta facendo (i monologhi enfatici, le forzature, il disinteresse totale per la narrazione classica) -,  ma che possiede l’essenza della grandezza esplorandone ogni spazio fino alla meraviglia.







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