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Spring Breakers - Una vacanza da sballo

Regia di Harmony Korine vedi scheda film

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La recensione su Spring Breakers - Una vacanza da sballo

di scapigliato
8 stelle

La forma è il contenuto, quindi il corpo è l’anima. Non ci sono introspettive nel film di Harmony Korine. L’oggettivazione del corpo – che finalmente dopo decenni di pudore oggi va per la maggiore sdoganando anche nel cinema main-stream tabù storici come il nudo maschile e gli atti sessuali veri e propri – passa attraverso la riproduzione frammentaria dell’immagine, sia quella corporale che quella prettamente visiva. I corpi in oggetto – quelli estremamente conturbanti delle quattro badgirls capitanate da Ashley Benson, come quello fisicato e decadente di James Franco o quello sfatto, attivo e dinamico del boss negro, per non dire di tutti i corpi maschili e femminili che intervengono nelle inquadrature, nei rallenty, in ogni frammento e stacco narrativo – sono corpi privati della loro sensualità ed esistono solo nella misura di una riproduzione immaginifica.

L’immagine post-pop di Korine in Spring Breakers – un mix di pop/populism e post-moderno – con le sue ellissi narrative, le sfasature temporali, l’asincronia di video e audio, l’anti-narratività delle scene, il kitsch con Franco che canta Spears, il barocco con tutti i fronzoli e le luci accattivanti di un lungo delirio sensoriale, è un’immagine lasciva e lassativa allo stesso tempo. Vuole da un lato coinvolgerci nella lussuria della tentazione sessuale, dell’estremo gioco adrenalinico, delle droghe che stordisco e così via, e dall’altro smuove il nostro stomaco/intestino perché espella da noi le tossine nocive.

Il corpo maschile dei ragazzi in jockstrap, ubriachi, fisicati, belli e spudorati, è un corpo devirilizzato. Non sono più maschi, nemmeno uomini: solo immagini di corpi glabri, perfetti, ideali, ma inutili. Il corpo femminile invece è prostituito. È oggetto di attenzione, oggetto di desiderio, oggetto motivale, ma resta segreto, lontano, inarrivabile. L’edonismo estetico e improduttivo, tanto sterile quanto out-of-gender, di cui siamo tutti vittime, consapevoli o no, è il cortocircuito generazionale del mondo adolescenziale oggi. Le quattro ragazze del film vogliono un pene, vogliono praticare rapporti orali; durante le feste si ubriacano, si spogliano, restano mezze nudo, dicono cose sconce, provocanti, estremamente trasgressive, lesbicano tra di loro, e poi? Poi nulla. La fellatio o la copula restano un miraggio. Non solo restano fuori dallo sguardo registico, ma semplicemente non avvengono. Non ce n’è bisogno. Quei ragazzi fin troppo perfetti non possono soddisfare. Quei loro corpi devirilizzati non servono a nulla, se non alla riproduzione asessuale dell’immagine carnale, alla sua vita solamente estetica, all’idea distorta e mai realizzabile di una vera fisicità, di una vera sensualità, di una vera pornografia.

L’edonismo compulsivo/ossessivo degli anni zero, l’immagine in luogo della materia, quindi l’immagine sessuale del corpo perfetto in luogo della sua fisicità, della sua capacità pornografica, della sua verità carnale è un edonismo improduttivo che non lascia scampo e sostituisce la verità dell’atto sessuale e della carnalità con l’illusione del piacere derivato dall’immagine, dall’idea di possesso, dall’idea di essere un “toro da monta” quando la realtà è parecchio lontana. Nessuno crede a quel ragazzo in jockstrap – il beefcake Josh Randall – quando mezzo nudo apologizza la propria futura, ipotetica improbabile prestazione. È devirilizzato. Non può copulare. Infatti si spoglia, si ubriaca, si perfeziona fisicamente depilandosi, fisicandosi e rassodandosi, per scimmiottare un’idea di stallone, di mostro della copula che oggettivamente non può dimostrare nemmeno a parole, quelle con cui cerca di portarsi a letto la giovane Cotty – la signora Korine.

Dal canto loro le ragazze sono prostituite in quanto vendono, regalano, erogano il loro corpo, o l’idea legata alla loro corporalità, provando un piacere “economico” invece che fisico, immaginato invece che realizzato. La prostituzione del sé avviene attraverso il gioco, l’aspetto ludico e infantile dei propri bisogni, rappresentati dagli status symbol della gioventù spersonalizzata: soldi, sesso immaginato, macchine, armi, potere e dominio sull’altro. Dopotutto chi non sparge sperma sparge sangue, e chi non è capace di avventurarsi nella copula è costretto a ricreare dominio e potere attraverso la violenza e la coercizione, come fanno le 4 badgirls di Korine.

Il regista ha l’audacia di non mostrare. Sembra un paradosso, ma il film che poteva potenzialmente essere pieno di nudi, sia femminili che maschili, di atti sessuali ripresi in presa diretta, non mostra nulla di tutto ciò. Anzi, la torrida scena della piscina con il threesome tra Franco, Benson e Hudgens è puro erotismo castrato. Questo la dice lunga sull’intera pellicola che non vuole essere un j’accuse contro la vacuità arrendevole dei giovani di oggi, ma semplicemente raccontandone i limiti attraverso la loro stessa vita.

La forma è il contenuto. Utilizzando l’estetica televisiva, i riferimenti culturali di una generazione nata e cresciuta sul web, la povertà delle loro competenze intellettuali – Britney Spears non viene citata a caso – e giocando con la forma psicotica e distressica di un linguaggio cinematografico arrogante e prettamente estetico, Korine racconta dell’insoddisfazione di un blocco sociale economicamente forte come i teenagers di oggi che sembrerebbero aver abbandonato il peccato del già fustigato materialismo per dedicarsi al peccato del nullismo. I corpi si vedono ma non copulano. La loro bellezza si vede, istiga, seduce, ma non conclude. Questi corpi vogliono soldi, macchine, adrenalina, ma quando uccidono non se ne rendono conto. La loro vita è un ologramma, una tendina sottile dove si inseguono immagini, non sostanze. La forma – ellissi, asincronie, sfasature, corpi devirilizzati o prostituiti, immagini di sessualità latente, copula verbale e non carnale, ex-eroine Disney catapultate all’inferno, etc. – è il contenuto – il nulla, il vuoto, lo stordimento ineffabile in luogo del piacere sensibile. Il corpo – devirilizzato e femminilizzato dei “maschioni” fisicati, glabri, esibiti, o quello prostituito delle ragazzacce in bikini fosforescente – è quindi l’anima – vuota, annullata, resettata, appiattita, inconcludente, asessuata.

Detto questo: in sala a vedere Spring Breakers il 90% degli spettatori erano ragazzine intorno ai vent’anni. Nessuna di loro ha parlato bene del film. C’era chi voleva andarsene durante la proiezione, chi ha insultato regista, attori e attrici, chi sui titoli di coda ha esultato per la fine della tortura, e chi ha minacciato di morte l’amica che l’ha portata al cinema a vedere questa schifezza. Questo cosa potrà mai significare? Ai posteri…

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