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Bling Ring

Regia di Sofia Coppola vedi scheda film

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La recensione su Bling Ring

di scapigliato
8 stelle

Il cinema estetizzante di Sofia Coppola attraversa, lei che è la versione femminile e pudica di Gregg Araki, l’emotività della online-generation, i nati dal ’90 in su, figli di tecnologie e di genitori assenti, fashion victim e celebrity/pathology, ragazzi e ragazze dal fisico perfetto, dal guardaroba mai vuoto e da una bizzarra ed eunuca idea del sesso. Lo shakeraggio della spazzatura in cui vivono ha creato dei nuovi mostri minorenni con gambe da urlo e sex-appeal da reato, padroni dei loro genitori impotenti, combattuti e battuti dall’insoddisfazione esistenziale, ben vestiti, ricchi, pieni di oggetti di lusso, ma incapaci di autostimarsi quel poco che eviterebbe l’infanticidio a cui purtroppo stiamo assistendo.
Non parlo di Bling Ring, ma della realtà, almeno statunitense e per metà anche europea ed italiana, degli adolescenti oggi. Decodificati dagli status symbols, non sono più atomi impazziti, indecifrabili e dagli ormoni sballati come lo siamo stati davvero e come molto cinema a stelle e strisce da I Was a Teenage Werewolf (1957) in avanti ci ha raccontato, bensì sono vuoti simulacri, corpi anestetizzati dalle comodità e dai liberi permessi, cervelli sedati e appiattiti in cui l’unico orizzonte culturale possibile è la facile celebrità ottenuta con pratiche illegali come inumane.
Non è un facile pamphlet sociologico o psicologico il mio, non ho gli studi per farlo. Ma come si dice, “i ragazzi sono in giro”, e si vedono. Inoltre, Sofia Coppola, grazie ad una accuratissima fotografia bucolica, che cozza con l’insensibilità di una metropoli feroce, rappresenta con delicatezza ed ironia un mondo vuoto, anoressico di obiettivi sani e costruttivi, infarcito da parole e pensieri così edulcorati che si stenta a credere possano essere mai formulati da bocca umana. La distorsione sociale e la disfunzionalità sia famigliare che comunitaria dei ragazzi di oggi e dei loro genitori, i ragazzi di ieri, è percepita dal racconto della Coppola come una anestesia indolore e zuccherina, dove tutto è sordo e tutto è dolce, dove il male diventa il bene e il bene svanisce evaporando, esattamente come ne Il Giardino delle Vergini Suicide (1999), dove fanatismo religioso e miopia socio-culturale mandavano a morte un’intera generazione.
Allo stesso modo, il fanatismo della celebrity/pathology e quello del buonismo di facciata, venduto a grandi sorrisi incorniciati in quegli interni in stile rustico barocco nati sui set di Beautiful (1987-), ed oggi ormai approvato, collaudato e applaudito nuovo american-style of life, importato poi in tutto il mondo – compresi gli odiosi “assolutamente sì” e “assolutamente no” che uno crede che lo fanno più importante invece confermano il suo breve raggio intellettivo essendo una formula sgrammaticata e adottata solo per una ipotetica e inutile conquista di classe – fanatismi si diceva, che mandano non più a morte, bensì in galera, ragazzi veri in carne ed ossa. Bling Ring è infatti un’agghiacciante storia vera, un horror inquietante popolato da zombie truccati e griffati. Attenzione a Claire Julien vero e pericoloso corpo da reato.
La Coppola, ad oggi l’autrice più coerente e dotata sulla scena internazionale, dipinge a pastello un’adolescenza corrotta, tenera nella sua ignoranza, ma irrimediabilmente ferina e imperdonabile. Mentre per il personaggio di Marc l’affermazione del se stesso mai nato passa attraverso la prostituzione del sé indotto dal “branco”, per le fameliche ragazzine del Bling Ring l’affermazione della propria individualità passa tra le strette trame della libido esistenziale. Essere a tutti i costi qualcuno che non si è ancora perché ci sono i mezzi per poterlo diventare. Essere famosi e appartenere a quel mondo di lusso e di piaceri facili e comodità anti-etiche perché il sistema privo di coordinate culturali etiche lo può permettere.
Alla base c’è il vuoto. E la Coppola è bravissima a raccontarlo per immagini. Inquadrature lunghe e fisse su porzioni di interni o su distanze maggiori con i campi lunghi, distaccate come anche ravvicinate al viso dei protagonisti, spiati come in film verità, immagini edulcorate da una fotografia e da un montaggio dolci e indolori, quasi ci fosse il Gus Van Sant di Elephant (2003) a coreografare le emozioni a tratti urlate e a tratti dimesse dei protagonisti. Risalta lo sguardo materno con cui la regista ci racconta Marc, e quello contemplativo, quasi herzoghiano con cui ci racconta il branco, mentre la parodia dei genitori di tre delle protagoniste, tra cui una bellissima Emma Watson mai così conturbante, sembra la versione sedata delle dive di Desperate Housewives (2004-2012).
Ciò che resta a fine pellicola è lo stesso amaro, dolciastro e acidulo sapore che lasciava la corsa senza speranza delle protagoniste di Spring Breakers (2012). Un corto circuito estetico fatto di nullità – cos’è un marchio? Un trend? Nulla, il niente. Eppure per questa generazione sembra fondamentale avere un marchio che la identifichi. Un corto circuito estetico condensato di immagini frammentate, pluri-riprodotte e pluri-riproducibili, dove il faking è lo stato perpetuo dell’esistere in sostituzione alla vecchia e obsoleta bravata, la “cazzata”, la ribellione vera e seria, dura e pura, capace di smuovere le montagne.
I nostri padri sognavano un giorno di essere Tex Willer o Nembo Kid. Noi ci immaginavamo veri uomini come Clint Eastwood, dei duri alla Gene Hackman, avventurieri come Harrison Ford in Indiana Jones o picchiatori e guerrieri come lo Stallone di Rocky e Rambo. Immaginavamo di essere uomini con i peli sul petto e i muscoli e la barba a darci vigore. Oggi i ragazzini e le ragazzine sognano loro stessi autoreferenzialmente, glabri, belli, fisicati, minorenni a vita, e se riescono a immaginarsi nel futuro lo fanno attraverso un binocolo dalle lenti sfuocate e si vedono ricchi e potenti, corrotti e spregiudicati credendo che il mondo inizi e finisca con un’unica frase: “Sarò anche una puttana. Ma una puttana ricca”.

Piccola postilla. Un ragazzo gay di 19 anni mi ha così risposto in facebook: Per perfetto intendo un film cosi superficiale che allo stesso tempo ti fa riflettere su ciò che è veramente importante nella vita, aldilà di popolarità, borse, e vestiti di marca *-* (cose che noi giovani amiamo) cmq dipende dai punti di vista, per me è perfetto.

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