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Miele

Regia di Valeria Golino vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Miele

di hallorann
10 stelle

Carlo Cecchi ha danzato cinematograficamente diverse volte con la morte. Con i tarli esistenziali de LA PROVA GENERALE, “devo riorganizzare la mia esistenza…” o ci ha giocato A MOSCA CIECA sempre negli anni sessanta. Ci ha bevuto macabro ironizzandoci e mettendola in atto nella rivelazione MORTE DI UN MATEMATICO NAPOLETANO, ha formulato pratiche negromantiche ne L’ARCANO INCANTATORE, l’ha indagata nel rompicapo denominato UN DELITTO IMPOSSIBILE. L’ha procurata ad altri nei panni di Donato Bilancia in una fiction illuminata semplicemente dalla sua interpretazione. Questo sommo attore di teatro ha qualcosa di magico nelle rare incursioni su grande schermo: innanzitutto il corpo quasi elettrico, che si muove a scatti e la voce impastata, unica, oggi ancora di più dalle sigarette, una voce paragonabile solo a quella di latte e di miele di Mastroianni. E arriviamo appunto a MIELE, titolo del film e del personaggio principale (impersonato da una superba Jasmine Trinca), un’assistente che pratica suicidi assistiti a malati terminali in un paese dove non c’è e non ci sarà mai una legislazione a favore di un diritto che dovrebbe rientrare tra le libertà individuali. Ma non entriamo in merito alle sovrastrutture ipocrite e medievali che ci portiamo dietro e dentro. La vita di Irene/Miele è frenetica, scandita da rituali, viaggi e incontri che servono a mascherare la sua attività illegale e un’esistenza ancora incerta e inafferrabile. L’incontro-scontro con l’ingegner Carlo Grimaldi, dalla salute di ferro e afflitto dal “male di vivere”, sconvolge la sua prassi medico-assistenziale, la sua etica, la sua “missione”, in poche parole la sua vita. Bisogna essere per forza malati per chiedere di morire? Grimaldi scardina questa domanda e i ruoli si invertono. Beffardo e ironico l’anziano prima dell’uscita di scena semina dubbi e poi certezze sul cammino futuro di Irene, la accompagna e la assiste fuori dalle secche di una non vita, ne placa l’ansia e gli attacchi di panico su ciò che realmente fa e compie. Potrebbe essere interpretato come una figura moralistica, un padre vero in mancanza di uno reale svagato e inconsistente. L’ingegnere, invece, è l’amico vero che non ha, una solitudine che ne incontra un’altra facendola maturare e aprire gli occhi sul suo presente e domani. Il libero arbitrio di farla finita senza doversi dire l’ultimo addio, aspettare i due o tre minuti per chiudere la pratica, sborsare un mucchio di quattrini esiste e Grimaldi lo sapeva, doveva solo sistemare alcune cose e aspettare il momento giusto. Un punto di vista discutibile e al contempo condivisibile quello sviluppato dall’originale debutto alla regia di Valeria Golino, sceneggiatrice con Valia Santella e Francesca Marciano, partendo da un romanzo di Mauro Covacich. Anche quest’ultimo, come Irene, per la prima uscita del libro ha dovuto nascondersi dietro un’altra identità, un altro nome, femminile. E’ questa la libertà che manca nel nostro Paese. MIELE è il giusto sapore di un film intenso e vibrante di emozioni, di riflessi e ombre, di correre e rincorrersi a mosca cieca alla ricerca del senso ultimo (se c’è) del vivere e del morire.

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