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Quartet

Regia di Dustin Hoffman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Quartet

di spopola
6 stelle

Una gradevole esibizione di talenti questa esile commedia un po' senile come i suoi interpreti che purtroppo a me ha suscitato poco entusiasmo e qualche punta di noiosa insofferenza per essermi tristemente ritrovato di fronte a un “déjà vu” indubbiamente di discreta fattura ma del quale però io non sentivo davvero il bisogno.

Ed anche Dustin Hoffman, ultimo di una lunga serie di attori convertiti alla regia, alla fine ha fatto il grande balzo ed è passato dietro la macchina da presa. Che dire di un risultato che più tradizionale di così non era possibile immaginare? Classicamente accogliente nei movimenti della cinepresa, fluido ed efficace nella narrazione, impeccabile nell’impaginazione delle storie, delicato, malinconico, ironico… tutto bene insomma, visto che c’è persino un adeguato gioco intriso di sottile malinconia che non difetta di humor e di pungenti riferimenti alle interazioni sociali … ma diciamoci davvero tutta la verità anche a costo di essere un tantino irriverenti: se le cose stanno così, se è solo questo che può offrirci, per quel che mi riguarda se ne poteva benissimo fare a meno di questa tardiva “scesa in campo” che a mio avviso – visti i risultati - è “sostanzialmente inutile” (nel senso che ha pochissimi elementi di riconoscibilità – e nessuno di effettiva novità - anche se ha l’indubbio merito di averci per lo meno evitato alcuni – non tutti però - dei cliché più abusati  spesso presenti nelle commedie agrodolci che si concentrano sulle tematiche della senilità soprattutto quando riguardano le figure un po’ patetiche di coloro che - ormai in disuso - sono stati però un tempo acclamati artisti della scena). Alla fine infatti se si guarda bene, il principale motivo di attrattiva del film risiede nell’eccellente performance dei protagonisti chiamati a interpretare con la loro consumata perizia i sentimenti contrapposti dei personaggi che vivacizzano la storia sullo schermo. Su di loro, c’è davvero poco da obiettare, mentre invece per me il giudizio rimane sospeso proprio sulla figura di Hoffman regista, nel senso che non ci ho riscontrato la stessa urgenza e necessità per esempio che ho intravisto invece in Al Pacino che anche se non ha sfornato capolavori assoluti, ci ha comunque regalato insoliti percorsi narrativi intrigantemente coinvolgenti da discutere e approfondire.

E’ comunque solo la sua seppur tardiva “opera prima” che potrebbe anche avere il senso e il “peso” del “rodaggio” e dovrò allora giocoforza concedergli pur con molte riserve,  qualche possibilità di appello prima di trarre conclusioni troppo affrettate.

Qualcosa però la devo dire subito (e non è certo un pensiero molto positivo): a me ha dato l’impressione di poter assimilare questo singolare esperimento che definirei di “riciclaggio” professionale, a quello di certe famosissime ugole della lirica –  tanto per restare in tema – che in tarda età si riqualificano come competenti, precisi ed ordinati direttori d’orchestra filologicamente inappuntabili ma privi di effettivo carisma esecutivo (molto corretti e poco emozionali, insomma), per tentare così di restare nel loro mondo “dorato” ancora da protagonisti e far parlare nuovamente di sé, quando purtroppo la loro parabola artistica legata alla loro effettiva vocazione, è in inevitabile declino, se non del tutto estinta.

Forse l’unica vera trovata di regia infatti, sta proprio nei titoli di coda, ma che sono di solito appannaggio di pochi, visto che alla parola “the end” praticamente quasi tutto il pubblico si affretta ad uscire precipitosamente dalla sala, come se non glie ne importasse molto di sapere chi sono stati gli artefici della rappresentazione a cui ha appena finito di assistere: una carrellata di foto giovanili che ritraggono una  buona fetta della folta schiera (38 personaggi complessivi) composta in gran parte di “attori” improvvisati per questa altrettanto particolare circostanza (un coro di comprimari  e di molte comparse sullo sfondo, con un quartetto di solisti in primo piano)  che sono stati però nella vita reale, apprezzati e famosi musicisti, o cantanti professionisti di elevato valore come Gwyneth Jones, e che di conseguenza hanno davvero avuto l’occasione di frequentare assiduamente i prestigiosi palcoscenici londinesi e del mondo intero. E’ qui che più che in ogni altra parte dell’opera, l’emozione abbonda e prende il sopravvento, quasi che si trattasse di un rifrangente gioco di specchi  altrettanto “nostalgico” e malinconico, finalizzato a confermare e rendere palese a tutti l’inusuale qualità del capitale umano utilizzato, e offrire così un ulteriore (tardivo) squarcio di veridicità alla costruzione”realistica” di questa messa in scena della senilità dell’artista colto nel momento in cui i limiti di età diventano inappellabili e deve necessariamente tornare ad essere “semplicemente umano” e  fare di conseguenza  i conti anche con le proprie solitudini, in un mondo come quello di una casa di riposo che diventa troppo circoscritto: incapace di sopire antiche rivalità e rancori,  rischia invece – nella convivenza forzata e condivisa - di render anche piccoli screzi giornalieri, macroscopici e insanabili elementi di conflitto.

 

Il film è in pratica l’adattamento dell’omonima pièce scritta nel 1999 da Ronald Hartwood (responsabile anche della sceneggiatura), affermato autore britannico di commedie che girano spesso attorno al mondo del teatro (si deve alla sua penna anche il  più noto e potente Servo di scena portato con ben più efficacia sullo schermo da Peter Yates nel 1983), che sa indubbiamente  sfruttare con adeguata efficacia l’acida contrapposizione delle psicologie nello scrivere le sue più che piacevoli commedie, per altro molto fortunate, anche perché sono sempre concentrate su un ridottissimo numero di ruoli che permettono di conseguenza esibizioni  un po’ mattatoriali sempre molto gradite dal pubblico, ed un’esposizione economica meno consistente di quella che richiederebbe un utilizzo composito di attori per una rappresentazione teatrale piena di “caratteri” anche secondari, ormai sempre più rara per l’irreversibile crisi del settore.

Questo è dunque un testo leggero che potremmo definire di “intelligente intrattenimento” indubbiamente ben scritto, ma a mio avviso comunque non fra i suoi migliori, che come si è già visto, intende affrontare  il tema della vecchiaia (e lo fa con molta simpatia e qualche venatura di acida ironia). Per movimentarlo però, punta ancora una volta i riflettori su una particolare categoria di persone, i cosiddetti “artisti” della scena  e poter così caratterizzare meglio le figure esasperando il tipico mix che li contraddistingue e che lui sembra conoscere così bene, fatto di creatività, aggressiva fiducia in se stessi, fragilità emotiva, rivalità e istrionismo, e renderle così forse più interessanti (ma anche un po’ più scontate) in una messa in scena condita in salsa dolce-amara come questa (ma la virulenza e il valore del già citato Servo di scena rimangono echi lontani ed ineguagliati, poiché si avverte chiaramente che lì c’era l’inspirazione, mentre questa volta rimane invece poco più che il mestiere).

Conoscevo già la commedia (e mi era sembrata vecchia e un po’ fuori tempo massimo già quando l’ho vista ormai più di dieci anni fa rappresentata con successo sulle nostre scene con la piatta regia di Patrick Rossi Gastaldi, l’italianizzatissimo adattamento di Antonia Brancati e il titolo cambiato in Bella figlia dell’amore). Non avendo letto il testo in originale, ritenevo però che quel “qualcosa” che mi aveva un po’ disturbato in tale circostanza, fosse dovuto al tentativo di renderlo adeguato al gusto decisamente meno sofisticato del pubblico italiano rispetto a quello british , ma ho dovuto invece rilevare adesso che il limite era proprio e già allora, nella struttura narrativa originaria (che è poi quella di presentarci una (ir)realtà un tantino anacronistica di un mondo di “primedonne” del belcanto – il termine  intende includere anche il sesso maschile - che a me sembra  sia scarsamente proponibile ai giorni nostri, perchè se mi risultava già stantio agli inizi del 2000, figuriamoci oggi, visto come vanno davvero le cose nel settore, anche se qui ci si riferisce comunque a un passato di acclamati successi da “star-system”  ricco di fans sfegatati alla ricerca della “nota perfetta”, che si collocherebbe più o meno verso la metà del secolo scorso, quando le cose andavano ancora molto meglio di come invece stanno andando adesso).

Tornando alla pellicola in questione, devo confessare comunque di aver provato (quasi) lo stesso disagio avvertito durante la visione di Marigold Hotel: grande spolvero di prestigiosi attori in splendida forma che danno il lustro necessario al risultato, ma  altrettanta ovvietà di contenuti – che nel caso del film di John Madden, diventano discutibili e poco veritiere “palle al piede” per esempio nel presentarci un’India da cartolina e lontana anni luce dalla realtà dei fatti, da risultare persino stucchevolmente “idilliaca”, esattamente come le situazioni che coinvolgono e stravolgono i personaggi, ma alla fine talmente accomodanti fino a stemperarsi in un epilogo che tende a dissipare i dissapori per distendersi in una conclusione “rassicurante”, buonista e un po’ fasulla, che praticamente assolve e riconcilia più o meno tutte le figure, ognuna delle quali scende a più miti consigli e si adegua di buon grado alle circostanze. Un prodotto insomma da gustare  all’ora del tè insieme ai pasticcini, particolarmente indicato per un pubblico femminile colto e preparato ma poco propenso a essere “sconvolto e disturbato” da questioni troppo seriose. Questo “Quartet” comunque ha per fortuna qualità meno “censurabili” rispetto al succitato titolo (parere strettamente personale, ovviamente), poiché è indubbiamente  meno prosaico e più realisticamente efficace e credibile proprio nel disegno dei caratteri sorretti da dialoghi spesso arguti e spassosi: tutto sommato e proprio in virtù di tali qualità, può risultare (come i fatti hanno per altro dimostrato)  persino di gradevole intrattenimento se lo si prende per il verso giusto e si è disponibili a fare i conti con una regia classicheggiante e priva di “guizzi”, certamente scorrevole ma “anonima” come quella offertaci da Dustin Hoffman soprattutto impegnata a coordinare e controllare (e questo gli riesce molto bene) le prove entusiasmanti di un cast eccezionale dove è davvero difficile stabilire il primato del migliore che porta certamente in primo piano la solida efficacia di una Maggie Smith al suo meglio, ma ci fa ritrovare anche la sottile, sorniona pacatezza che il tempo non ha scalfito minimamente, di un attore sempre straordinario come Tom Courtenay, la svampita  esuberanza di Pauline Collins, la fascinosa aitanza un po’ senile del baldanzoso Billy Connolly, e l’istrionismo un tantino caricaturale di Michael Gambon. Una gradevole esibizione di talenti insomma che purtroppo a me ha suscitato poco entusiasmo e qualche punta di noiosa  “consapevolezza” per essermi tristemente  ritrovato di fronte a un “déjà vu” indubbiamente di discreta fattura ma del quale però io non sentivo davvero il bisogno.

 

La vicenda si svolge a Beecham House (nella realtà dovrebbe trattarsi comunque di Hedsor House, se non vado errato) che è un’elegante residenza in pietra grigia situata nella deliziosa campagna inglese e arredata con tipico gusto british, che è stata adibita a casa di riposo riservata a musicisti e cantanti lirici ormai non più attivi per raggiunti limiti di età.

La vita scorre tranquilla, pur con qualche lutto,  e gli ospiti, a coppie o in piccoli gruppi, continuano a suonare brani di musica classica e a cantare romanze, nonostante gli acciacchi e i fiati tremolanti. Tra i residenti. ci si concentra soprattutto su tre settantenni, amici di lunga data: lo stimato tenore Reggie (Tom Courtenay), che impartisce lezioni teoriche di musica a giovani studenti confrontando il melodramma col rap; il giovanile baritono Wilf (Billy Connolly), che nonostante la veneranda età continua a darsi arie da latin lover; e l’ingenua e a tratti smemorata contralto Cissy (Pauline Collins).

Si avvicina l’annuale concerto organizzato per raccogliere i fondi necessari al mantenimento attivo della villa, altrimenti a rischio di chiusura, che come sempre dovrà vedere la luce nella data commemorativa della nascita di Giuseppe Verdi, ed è in preparazione di tale evento che ogni  giorno gli artisti chiamati ad esibirsi si trovano impegnati nelle prove sotto la severa guida di Cedric (Michael Gambon) eccentrico e pretenzioso direttore d’orchestra.

Un mattino però  giunge alla villa come nuova ospite della struttura, una misteriosa, orgogliosa  e altezzosa “prima donna” della scena: l’altrettanto attempata soprano Jean (Maggie Smith), depositaria di un glorioso passato e di una vita altrettanto burrascosa, che per un “brevissimo istante” è stata anche la moglie fedifraga di Reggie (insieme a lui, a Wilf e Cissy, aveva formato un quartetto stilisticamente e vocalmente inappuntabile, che si era reso protagonista di una ormai lontana, memorabile esecuzione del Rigoletto passata agli annali della storia e immortalata nei dischi, acclamata soprattutto per la straordinaria perfezione esecutiva dell’aria dell’ultimo atto dell’opera: Bella figlia dell’amore… schiavo son de’ vezzi tuoi; con un detto, un detto sol tu puoi le mie pene, le mie pene consolar. Vieni e senti del mio core il frequente palpitar… etc. etc. etc.).

Will e Cissy si entusiasmano al pensiero di poter ricomporre come numero di punta del concerto in preparazione, proprio quel leggendario pezzo, ed è così che dopo aver vinto le comprensibili “chiusure” di Rennie (turbato e ancora offeso dal tradimento e dall’abbandono, ma segretamente ancora innamorato della sua ex moglie) propongono a Jean di dichiararsi disponibile accettando l’invito, poiché è lei l’insostituibile elemento necessario a rendere davvero fattibile il progetto.

Dapprima Jean rifiuta: sa di aver perso lo smalto vocale di un tempo e vorrebbe lasciare intatta per i posteri la leggendaria sonorità melodiosa della sua voce.

Anche lei però si è posta un obiettivo (quello di far pace con Rennie) nello scegliere la villa come sua ultima residenza. E’ così allora che dopo molti battibecchi e chiusure, i due  si  incontrano… si parlano… si “ritrovano”… si chiariscono  e felicemente si riconciliano. Di conseguenza, l’esecuzione avrà luogo, come per altro era prevedibile fin dall’inizio perché in opere di siffatto genere, tutti i salmi finiscono sempre in gloria e l’happy end è assicurato.

Il racconto è dunque lieve e leggero come si può ben capire da queste note, e intende forse riassumere con qualche amarezza e un pizzico di ottimismo un po’ pompato, un concetto sicuramente apprezzabile e tutt’altro che banale, che è poi quello che nessuno dovrebbe trascurare l’importanza di accettare una seppur più tenue soddisfazione emotiva che la vita può offrire anche nel corso dell’età più avanzata, e che può di nuovo riempire l’esistenza se si prendono le cose per il verso giusto e ci si accetta per quel che il tempo ci ha fatto diventare.

Ottima come al solito la fotografia di Hans Fromm, calda ed autunnale come i personaggi della storia e la suadente colonna sonora  di Andress Mücke-Niestyla.

 

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