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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Pietà

di M Valdemar
8 stelle

   Non guardate la Bestia: essa ci nutre e ci sopprime, in essa esistiamo senza (r)esistere. Figlia mostri, assetati di solitudine e disperazione, mutilati nell’animo ed eternamente erranti negli infernali antri dell’urbana desolazione. Degrado psichico progressivo che si riflette nel tutto-vuoto imbellettato come una puttana marcita, rivestito di cemento e ferro, vetro e fango, macchinari e liquami, dolore e sangue, lacrime e lerciume.
Nulla sono, del nulla imparano a nutrirsi, nulla sentono e nel nulla, inghiottiti dall’assurdo assurgersi a maschere compiacenti piangenti militanti, ritorneranno. Uniti al sudicio, bagnati nell’intimo e corrosi da rifiuti organici tossici mefitici salvifici, schiacciati tra il nero obnubilante asfalto e il candore operativo dei vermi della putrefazione.

   Non affamate la Bestia: già sazia, ingorda di miseria, di miseri volgari e d’immiserimento autoinflitto, s’immola al martirio esigendo il sacrificio ed erigendo imponenti museali tombali terrapieni di metallo, catrame e putridume, emblema di condizione/conduzione/mercificazione morbosa e morte. Cripte a cielo aperto con tetre nuvolaglie a sorvegliare il buon fine e riversare fluidi impuri sulla massa informe da domare dominare dogmatizzare.
Fame e debiti, rumore assordante d’ingranaggi sempre in azione sempre mal funzionanti sempre utili all’immondo esercizio del dilettevole delitto per direttissima su melodiosa partitura per effluvi ematici e schizzi spermatici soffocati dal/nel/sull’accogliente cuscino deliziosamente emarginante che culla l’infinito (auto)isolamento e sepolcrali illusioni di voluttà.

   Non volgetele lo sguardo, poiché la vendetta è un culto potente ed in perpetuo mistificatorio moto andante cangiante (tras)mutante tra l’aldiquà, l’aldilà e la sconnessa quotidianità. Viaggi allucinanti lancinanti sconfessati sulle impalcature sospese in aria che, oscillanti per i flussi artefatti indotti da uomini costruttori di oscurità, governano sul sottosuolo infestato dalla magmatica moltitudine di topi che continuano, incuranti e impotenti, a far girare la ruota di quella che chiamano vita.
Avvolti come avvoltoi grondanti/impregnati di sangue, carni e feci, osservano ossequiosi i sacri rituali della devastazione, cibandola essi stessi con le loro carni malate e gli occhi iniettati di paura. Pura paura di non capire sentire provare niente: in realtà, certezza. Nascosta (a chi?), congelata - il gelo è da sempre compagno di inganno -, ricoperta di mendaci alibi.

   Non piangete: non capite che la coscienza giace beata be(nd)andosi degl’infinti interrogativi dubbi indugi? Ed affidarsi alle amorevoli traiettorie di un coltello che si conficca in una foto trapassando l’impenetrabile impossibile muro d’indeterminatezza e disorientamento è come innaffiare un pino sulle tombali rive di un fiume cronicamente inesistente immaginario che scorre, placido ed ectoplasmatico, seguendo le correnti traboccanti caos di un imploso omertoso vagare senza meta.
Il salto angoscioso a sfracellarsi sul suolo - un suolo sporco, invitante, fertile di tristezza familiare, imbevuto di vapori sapori colori anemici e deturpati, indefiniti, indefinibili - è un liberatorio (as)salto verso l’ammutolente consapevolezza d’uno stato incancrenito dal quale è impossibile sottrarsi. Perché la pena, perversamente, alimenta se stessa, e non può essere espiata.

   Non pregate: la vita è una eterna, immorale, insanabile (c)astrazione. Mentirsi, trasformarsi, punirsi. Il dolce acre suono della sofferenza ancestrale, del tormento tumorale, dell’insopprimibile autocondanna, è una catarsi impura inquinata industriale dal cui tessuto cicatriziale sgorgano, maledette, le misture che form(ul)ano nuove autoinezioni per ricominciare ripartire riprendere, felicemente, ad agonizzare. La dannazione è sempre in attivo.
Rumori. Sordi, assordanti, sferraglianti, gentili; gentilmente (pres)agiscono. Rottami: d’uomini, ciechi affamati triturati; di saracinesche, confortevoli come tombe, ospitali come cimiteri, riparanti come il grembo materno. Un grembo però infestato dal virus inestinguibile della vendetta, unico solo esclusivo metodo e modo di purificarsi eviscerando il dolore e affidarlo al male.

   Non punite Kim Ki-duk. Egli è ferito, ancora, e sfiancato, posseduto, fragile, precariamente risorto in nuove vesti [voci dal post-visione: “certo che è cambiato, lui: era così sublime nella narrazione …” e via a disperdersi nelle tenebre d’una serata umida e ostile]. La sua impronta è certo lontana dalla perfezione (stilistica, espressiva, comunicativa), meno compatta, omogenea, immaginifica, eppure più radicale, ossessiva ed ossessionata, più - ineluttabilmente - personale.
In bilico tra autoanalisi ed autoesorcismo, Ki- duk è un’anima spettrale che s’aggira ansimante per lo spettrale panorama asfittico volgare plumbeo ch’egli non filma: ci è dentro, lo smuove lo scuote come una palla di vetro con la neve - solo che da questa palla-città-limbo scendono polveri miasmatiche che nessuno (vuole) vede(re) -; lo vive e ce lo fa vivere.
Senza risparmiarsi/ci nulla, senza incantare incanalando eleganza e rigore per renderci più gradevole e ammirevole la sua opera: la disperazione non ha né confini né pudori né pietà. Ma lascia traumi, tracce, scie.
Quella di sangue, nel finale, che tinge di vermiglio il duro asfalto nella fredda nera foschia mattutina - uno scenario aperto ma, ancora, desolato - è di una crudezza indescrivibile.
E il Kyrie eleison che, potentemente, l’accompagna, è un melodioso canto funebre che esala l’abbandono di ogni speranza.







 

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