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C'era una volta a New York

Regia di James Gray vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su C'era una volta a New York

di mck
8 stelle

 

LA FANCIULLA DEL WEST  ( Vivre Sa Vie - un Pilot ).

Attraversato il Sahara Atlantico s'una carovana a vapore, le sorelle Ewa e Magda
---{ un singolo flash-back alla “Giù la Testa” dalla matria Polonia (Slesia), con silhouette quasi subliminale di soldato-mercenario-ribelle cosacco [ la regione storico-geografico-etnica della Slesia a quel tempo ( postumi della WW1 ) stava per essere spartita ( per l'ennesima volta ) tra Polonia, Germania e Cecoslovacchia, e la Russia a ''guardare'' ] ed ombra di stermino ( teste capitozzate, zac!, e urrà! ) a renderle orfane tra i panni stesi al sole ad asciugare ai bordi dei prati e dei campi coltivati, mentre basta un poco di non detto per farci immaginare “i fatti accaduti durante il viaggio” }---
sbarcano a Ellis Island nel Gennaio del 1921, in attesa di essere spulciate, identificate ( una via di mezzo tra il riconoscimento e la nuova identità ) e indirizzate/instradate, una portando con sé un possibile principio di tubercolosi ( quarantena semestrale, scaduto il termine : deportazione ), l'altra in dote uno stupro di gruppo [ altro ''motivo'' ( il ''conseguente'' sospetto - instillato - di meretricio ) di deportazione. Più tollerato, per tornaconto ].

 

 

Ad attenderle sul molo ammirando lo sbuffo di vapore del battello in manovra d'attracco tra le brume caliginose del mattino, e poi allo smistamento - senza che l'uno sappia ancora dell'esistenza delle altre, e viceversa -, Bruno Weiss, il pappone. Che ha appena tessuto la sua tela ordita alla buona.



James Gray firma con the Immigrant ( nell'insipienza del titolo italiano c'è dell'inconsapevole vero ) il suo film più piccolo
---( un colossale smisurato Melò, inscritto, cesellato e racchiuso nella più semplice storia mai raccontata...alla perfezione, la cui complessità è segretamente veicolata dalla precisa stratificazione di infiniti, convenzionalmente celati particolari )---
scrivendo una minimale sceneggiatura corazzata
---[ vi è in essa rappresentata più la potenza postmoderno-massimalista di P.T.Anderson ( “There Will Be Blood” e “the Master” ) - pur essendone praticamente agli antipodi ( si pensi ad un “Days of Heaven” prosciugato all'osso ) - che la sperticata linearità di Coppola ( "the Godfather- Part II" ) e Scorsese ( “Gangs of New York” : oserei dire che vi è più “the Age of Innocence” e “Hugo Cabret” ) : una buona via di mezzo è il Terence Winter di "BoardWalk Empire" ]---,
rispettando alla lettera l'ancestrale legge primaria della Buona Notte : quella che consente a chiunque di reclamare e richiedere a gran voce : " Raccontami una Storia ".

 


E ce la racconta, una Storia, sfumando dall'allegoria verso il simbolo ( ad esempio con un semplice atto metacinematografico : ecco sul palco Ewa mascherata da Statua della Libertà peripatetica ), trasfigurando in questo modo i puri fatti in una sorta di onesta didascalicità : ma questa percussiva auto-generazione sincronica di significanti essenziali, nudi e sguarniti di sovrastrutture, non sovrasta e non ottunde l'insorgere ulteriore dall'accumulo sedimentizio di metafore esplicite e di segni e segnali in continuativa, conseguente e complementare diacronicità dispiegatas'in ciclica consecutiva perenne evoluzione...sino a noi. A quel che siamo, a quel che dovremmo sapere di essere. Appartenere. Significare. Divenire.

 


Il tutto coadiuvato da grandi prove caratteriali di ottimi attori :
Marion Cotillard (*****) sforna tutta una sequela di devastanti sorrisi ( si potrebbe creare un portfolio di contro-Effetto Kuleshov ) : di circostanza, di disgusto, di sottomissione, di rabbia, di speranza. E c'innamora.
Joaquin Phoenix (****½) giganteggia per accumulo esorbitante di sottrazione ( la scena in cui ausculta la confessione di lei, soddisfatto-colpevole ), e Jeremy Renner (****) riesce a portare a termine il compito non facile di triangolazione del non consumato ménage à trois.
Tutto il restante comparto di caratteristi, a partire da Yelena Solovey, è magnifico.

 


La fotografia di Darius Khondji
---[ nuovo amore di Woody Allen ( quasi tutti i film a partire dal 2011, più ”Anithing Else” del 2003 ) e autore della luce di Delicatessen, la Cité des Enfants Perdus, Seven, Panic Room ( il suo film più piatto e, paradossalmente, per quanto riguarda la luce, più simile a questo ), the Ninth Gate, Stealing Beauty/Io Ballo da Sola, the Interpreter, My Blueberry Nights ( la sa usare la saturazione ), Amour ( la sa usare la desaturazione ) ]---,
pur non essendomi mai ''piaciuta'', qui rischiara portentosamente le scenografie NewYorkesi di Happy Massee (Two Lovers) – coordinate dall'art director Pete Zumba (Two Lovers) e dal set decorator David Schlesinger (Vampires), e messe in scena ''sul posto'', interamente a New York, con set interni ricostruiti in studio nel quartiere di Astoria nel Queens – alla luce di funebri itterici lumen tra vapori oleo-gassosi di scarto e incandescenza lattiginosa.

 


La musica di Christopher Spelman – assurto a compositore dopo il ruolo di consulente-arrangiatore-adattatore in “Two Lovers” ( una Manon Lescaut alla chitarra ), “We Own the Night” e “the Yards” –, così come per il montaggio, compie il suo dovere, e specialmente nel prologo, durante la ''levitazione'' e sui titoli di coda
---( dopo ch'è (ac)caduto il silenzio, alla fine, con solo un lieve scrosciare di pioggia sommesso, il tranquillo sciabordio delle onde e l'eco sguaiatamente poetica dei gabbiani in sottofondo a commentare il campo-controcampo terminale di finestra e specchio : due addii incorniciati in un quadro solo : dall'allegoria al simbolo, dalla didascalicità alla paradigmatica rappresentazione iconografica : dal significante al significato con un Segno, un'inquadratura )---,
sottrae pathos per restituire empatia.

 


Le musiche non originali utilizzate da Gray sono in gran parte pescate dal repertorio di Giacomo Puccini, con inserti di G.Verdi, J.Tavener e altri, più alcuni traditionals riarrangiati e suonati dalla Morrie Morrison Orchestra, e pezzi jazz e ragtime.

 


Un blooper consapevole ( non dico cercato e voluto, ma accettato come compromesso ) è costituito dalla scena dell'esibizione di Enrico Caruso per i detenuti in attesa di giudizio ( quelli in quarantena magari no...e infatti la sorella di Ewe, Magda, non è presente ) di Ellis Island ( un po' come se oggi a Lampedusa si esibisse un redivivo Luciano Pavarotti. E invece al massimo si beccano un Bocelli o un Baglioni. Quando si dice la crudeltà ) : a quel tempo Caruso era già tornato convalescente in Italia, a Sorrento, dopo un'operazione subita per risolvere una pleurite infetta al polmone sinistro. Morirà per una ricaduta del male sei mesi dopo. La performance avvenne realmente, ma circa 9 mesi prima.

 


Il montaggio di John Axelrad [ editor di fiducia di James Gray : “We Own the Night” e “Two Lovers”, qui coadiuvato da Kayla Empter, già prima assistente ( di Casey Affleck e Dody Dorn ) al montaggio di quel simpatico caleidoscopio che porta il nome di “I'm Still Here” ) ] mette in scena la sceneggiatura originale di Ric Menello ( Two Lovers ) e James Gray subissandola di campi-contro campi (davvero) invisibili.

 


E per un momento almeno, finalmente!, il nostro sguardo è incarcerato
[ come fossimo anche noi pubblico da
CDA ( Centro di ( Primo Soccorso e ) Accoglienza,
CPA ( Centri di Prima Accoglienza ),
CPTA ( Centro di Permanenza Temporanea ( e Assistenza ) ),
CARA ( Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo ) e/o
CIE ( Centro di Identificazione ed Espulsione )
lampedeusano o (pen)insular-continentale che sia : ah!, che prodigioso portento la semantica da deportazione ! Quale bellezza nel protocollare la condanna al rimpatrio forzato ! ],
il nostro immaginario scardinato, la nostra meraviglia soddisfatta, persa nella cornice di una scena : non sto parlando ancora dello splendido finale, ma di quando Jeremy Renner (Emil/Orlando) si libra, per qualche eterno secondo, compiendo il prestigio : è un treno bidimensionale di puro picere e stupore che ci travolge finendoci addosso.
E' il Cinema, che riproduce Tutto.

 


E dopo l'incarcerazione sublime, l'immaginazione condivisa ( nella gabbia-cornice di un'inq.ra che diverge e collima ), la meraviglia compartimentata e appagata, si ritorna a quel devastante “finale a chiave ( di comprensione e di volta )”, architrave portante ( a ritroso ) e pietra angolare a sostegno di ciò che NON abbiamo (ancora) visto ( e a cui mai forse assisteremo ) :
la fanciulla del west che - perdonato quel che c'era da perdonare - va a vivere la sua vita (sconfinata).

* * * * ¼  ( 8½ )

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