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Qualcuno da amare

Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film

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La recensione su Qualcuno da amare

di alan smithee
6 stelle

Cittadino del mondo (che suona anche molto e più drammaticamente come “esule”, se almeno un po’ ci vogliamo attenere alla dura realtà riservata dal sistema iraniano ad esponenti così creativi e proprio per questo problematici per la salvaguardia del regime) da qualche anno e almeno due film e mezzo orsono, da quando il noto produttore Martin Karmitz lo ha preso sotto la sua egida, Abbas Kiarostami ci sembra vaghi per il globo alla ricerca affannosa dei ritmi e del realismo che sono stati da sempre il punto forte e spesso il tocco di genio irraggiungibile della sua notevolissima cinematografia. Ma un conto è sviluppare un discorso in stile neo-realista e applicarlo, sfidando tenacemente i tempi e i ritmi imposti da molta cinematografia, in una società ancorata a uno sviluppo ancora incerto (ora più che mai, con un regime che opprime, isola e deprime ogni forma espressiva che possa in qualche modo metterlo in discussione), povera e con fasi di sviluppo e percorsi di crescita ancora molto lontani per potersi considerare completi; ben diverso è ostinarsi ad applicare alla lettera le regole e lo stile rigoroso di un cinema-verità che filma con lunghe riprese di macchina fissa o ben posizionata su un cofano d’auto a riprendere ogni lungo interminabile istante che caratterizza la spesso flebile o intima vicenda che  sostiene la pellicola. Una non-storia che coinvolge una giovane bellissima studentessa - call-girl a tempo perso per pagarsi gli studi - che il destino mette dinanzi ad un anziano professore solo, che intravede nella bellezza della giovane i tratti della giovane figlia che ora non frequenta più. Tra i due nasce un rapporto di complicità quasi affettivo, non certo sessuale, che oltrepassa e svicola decisamente dalla morbosità che faceva da presupposto al loro primo incontro. Un rapporto tenero ed affettuoso che non esimerà questa coppia sui-generis dall’affrontare le ire di un fidanzato geloso che non sa capire e travisa, accecato dalla gelosia, l’unico rapporto sincero e innocuo che non avrebbe minimamente messo in pericolo la loro travagliata storia d’amore.
In concorso al Festival di Cannes 2012, il film di Kiarostami raggiunge livelli di intimità davvero notevoli, questo e' certo, ed ha nel rigore e nell’esasperazione della realtà e dei momenti “qualunque” che caratterizzano ogni esistenza, i suoi punti di forza ma anche il suo limite principale. La società moderna non accetta più così facilmente, almeno in una ambientazione metropolitana ancora così inconsueta per chi ha filmato soprattutto paesaggi deserti e lunghi percorsi fatti di strade sterrate ed impervie (Kiarostami da sempre ama le lunghe riprese sulle autovetture, ricordate ad esempio i lunghissimi tragitti ne "Il sapore della ciliegia", e anche qui non fa eccezione) i tempi morti dello scorrere del tempo e le lunghe riprese di azioni ordinarie che non abbiamo un men che minimo appiglio cinematografico o narrativo. Certo questa volta, lontano dall’Italia e da una Toscana sempre molto rischiosa da rendere credibile cinematograficamente, il film ci guadagna laddove lo spettatore medio europeo  non è in grado esattamente di valutare se questo realismo esasperato si incasella in modo credibile o anche solo probabile nel contesto urbano e caotico della quotidianità di una tipica metropoli giapponese.
Se da un lato rincuora vedere uno dei migliori registi viventi al mondo accudito e  incoraggiato ad esprimersi anche fuori dal proprio contesto natio, dall’altro questo sradicamento forzoso suscita un po’ di inevitabile tristezza, mista ad un certo sospetto se si pensa che Kiarostami fa l’esule senza aver mai preso chiaramente (almeno credo, a quanto mi risulta) un ufficiale distacco da un regime tra i più duri e dittatoriali oggi esistenti, e cio' meraviglia ancor più se si pensa al destino drammatico e innaturale a cui sono sottoposti intellettuali e uomini di cultura iraniani come il coraggioso regista Jafar Panhai, da tempo sottoposto a severe misure restrittive che ne limitano da anni la libertà di vita e di espressione, condanna capitale, quest’ultima forse ancor piu’ della prima per chi è abituato attraverso una forma genuina e democratica come è e deve rimanere il cinema, ad esprimere il proprio sincero e disinteressato punto di vista.
 

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