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The Master

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su The Master

di mc 5
10 stelle

Questo è uno di quei casi in cui non è facile l'approccio, per una serie di motivi. E' notorio che si tratta di un film impegnativo, di cui molto si è discusso e ancora si discuterà. Ma prima una considerazione a latere. Esistono "filmoni" importanti e difficili da affrontare ma occorre sempre vedere l'effettivo "peso" del prodotto. C'è il caso di film davvero impegnativi come "The tree of life" di Terrence Malick (che io considero alla stregua di un capolavoro), e poi ci sono i filmoni inutili e gonfiati a dismisura, caricati di becero misticismo new age, come il tremendo "Cloud Atlas" che sta mietendo successi al nostro box office proprio in questi giorni. Un conto è realizzare un'opera importante affrontando con adeguato impegno temi e concetti complessi, altro è investire cifre pazzesche per mettere in scena opere gigantesche che veicolano pensieri banali ma caricati di tecnologia ed effetti vari che le rendano magniloquenti e pretenziose. Ma dove voglio andare a parare? Confesso che non lo so nemmeno io, confesso che sto navigando a vista, confesso di sentirmi disarmato di fronte ad un film che definire capolavoro parrebbe perfino semplicistico. Questa è arte pura, è ricerca, indagine sulla mente degli uomini, un viaggio nelle loro debolezze e nelle loro aspirazioni e frustrazioni. E allora grazie ad un cineasta che si fa carico di accendere una candela nel buio per fare luce sul senso della vita di uomini come me e come voi. Lo fa prendendo come emblemi delle miserie umane due personaggi fantastici che ben pochi altri registi avrebbero potuto mettere in scena, col supporto di due attori semplicemente superbi. Sto dicendo sciocchezze, vero? Ma sfido qualunque rischio di apparire ridicolo, mi voglio buttare senza rete e senza difese nell'impresa di condividere con chi mi legge l'entusiasmo per un film che io giudico immenso. Questo non è un film come gli altri. Te ne accorgi fin dalle prime inquadrature, quando già percepisci che la trama (ammesso che esista) è la cosa meno importante. Quello che prevale è il fascino dell'esplorazione della mente di Freddie, di questa sua personalità ampiamente irrisolta, un uomo decisamente infelice, ma anche incapace di essere consapevole di quel che gli manca. Egli pare ridotto allo stato di un animale che percepisce solo l'esigenza di bisogni fisici elementari...ubriacarsi, scopare e poco altro. Le sue esperienze di vita si risolvono sempre in modo fallimentare e lui accumula insoddisfazione unita ad una rabbia senza costrutto di cui nemmeno lui afferra il senso. Ha, sì dei soprassalti di quieta dolcezza, quando ripensa a quel momento che fu tra il corteggiamento e l'innamoramento, ma lo stato di calma beatitudine dura lo spazio di un attimo per far di nuovo posto alla "tana" del suo tranquillo disagio. Un uomo che sta bene solo quando sta male. Il tormento permanente come luogo di rifugio. Più che triste, sconvolgente. Fino al giorno in cui casualmente Freddie incrocia il proprio cammino con quello di Lancaster Dodd, altra personalità come minimo eccentrica. Dodd, che a suo dire è introdotto e attivo in ogni ramo dello scibile umano, in realtà si è fatto leader di una sorta di "comunità-setta" chiamata "La Causa" che pare votata alla ricerca scientifica-spirituale circa il senso e il ruolo dell'uomo nel tempo e nello spazio. Praticamente i massimi sistemi, però piegati, adattati, rielaborati a misura di uomo della strada...dibattiti e temi da intimorire chiunque, ma che Dodd va predicando in pillole (un pò semplicistiche e fumose a dire il vero) ad uso e consumo del suo pubblico di adepti, peraltro sempre più numeroso. L'uomo ha indubbio carisma, le sue conferenze si trasformano in eventi, gonfiate dalla sua trascinante carica istrionica. Ma il film ci mostra che egli non è solo un guru per vasti auditori, e lo verifichiamo nella sequenza del primo vero intimo approccio tra lui e Freddie. Quest'ultimo è reduce dall'ennesima sbornia e viene condotto al cospetto di Dodd. I due hanno così l'agio di annusarsi e diciamo che esplode fin da subito una inaudita complicità tra due personalità che si scoprono complementari: da una parte la nullità di una tabula rasa, dall'altra un turbinìo di cognizioni, di attitudini, di progettualità, una mente sempre in movimento ma che forse mancava (pur nel successo di crescenti proseliti) proprio di un destinatario-interlocutore ideale come Freddie, l'adepto-seguace che Dodd aveva sempre sognato. Qualcuno ha parlato perfino di ambiguità sessuale, e ci potrebbe anche stare, visto che sia Freddie che Dodd sono protagonisti di due esistenze sessualmente irrisolte (Freddie, come detto, è un animale con un concetto di sentimento alquanto confuso e malamente vincolato a pulsioni sessuali primitive, mentre Dodd, ancorchè regolarmente coniugato, vive con la moglie un rapporto complesso e psicologicamente dilaniato). Non svelerò sulla base di quali elementi, ma ad un certo punto l'idillio tra Freddie e Dodd subisce una frattura, difficile a dirsi se irreversibile o no. E a quel punto si apre la seconda fase del film, interessante quanto la prima se non di più. Elemento dissonante è che proprio Freddie, che aveva trovato nella "Causa" l'apparente risposta alle proprie ansie, apre uno squarcio drammatico in quel "teatro" che era diventato ai suoi occhi la comunità. Non si sa se è una presa di coscienza, vista la rozzezza schematica del soggetto, ma certo la sua è una reazione rabbiosa, di fronte alla quale Dodd, e tutto il suo stato maggiore, scelgono un atteggiamento singolare, cioè quello di attuare nei confronti di Freddie una specie di pesantissimo "mobbing". E mi fermo qui, visto che siamo giunti al sottofinale di questa tormentata e "nera" vicenda. Chapeau, ma veramente, a Paul Thomas Anderson che ha scritto e diretto un'opera difficile e complicata, che nessun altro cineasta avrebbe osato affrontare, peraltro portando a casa un risultato affascinante quanto disturbante, e realizzando il suo film più radicale ma anche il più intimo. Su Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman non esistono parole all'altezza di due performance assolutamente inarrivabili, che peraltro hanno portato ai due artisti ex aequo la Coppa Volpi all'ultimo festival di Venezia. Phoenix è uno splendore per ogni cinefilo che lo osserva ciondolare con quelle sue mani sui fianchi e la postura ingobbita, emblema di eterna inquietudine e di rabbia senza causa. Quanto a Seymour Hoffman, devo ammettere che la sua bravura mi ha letteralmente sconvolto: nei suoi occhi ho letto una Vocazione Assoluta per l'arte della Recitazione. Concludo citando volentieri una frase di Paolo D'Agostini che su Repubblica ha mirabilmente sintetizzato il senso di questa superba pellicola: "La meraviglia imperfetta delle relazioni umane".
PS: Dopo la scomparsa di Welles, Altman e Kubrick, oggi solo Anderson e Malick sono rimasti gli unici Maestri di un cinema che non cerca consensi ma ha il coraggio di indagare sulla Vita degli uomini e dunque rappresentarne con dolente precisione la condizione.
Voto: 10

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