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Contraband

Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film

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La recensione su Contraband

di OGM
4 stelle

È inutile: quando un film non si regge sulle proprie gambe lo si vede lontano un miglio. Baltasar Kormákur dirige il remake made in USA della produzione islandese Reykjavik-Rotterdam (2008) nella quale, quattro anni prima, aveva interpretato il ruolo principale, ora affidato a Mark Wahlberg. Un rifacimento che si risolve in un superficiale ricamo sulla trama dell’opera originale, di cui la nuova sceneggiatura riprende alcuni spunti per americanizzarli secondo i vigenti canoni dell’action movie. Quel poco che si guadagna in adrenalina si perde, però, sul piano narrativo: la vita vera del protagonista – quel Christopher guardiano notturno che qui diventa il Chris Farraday installatore di sistemi antifurto – svanisce, travolta dal ritmo serrato degli eventi, in una successione troppo spezzettata per dare il senso della continuità tra passato e presente: un elemento che, nella vicenda di Christopher, è  invece l’asse attorno a cui tutto ruota. Lui, pregiudicato ed ex bevitore, una volta scontata una condanna per contrabbando, vorrebbe intraprendere un’esistenza normale ed onesta, con sua moglie ed i suoi due bambini.  Tuttavia, la famiglia versa in precarie condizioni economiche, e l’uomo, pur essendo uscito dal giro, si ritrova immerso nell’ambiente malavitoso di una volta, a cui, tra l’altro, appartengono suo cognato ed il suo migliore amico. Nel film del 2008  si avverte, in maniera costante, la tensione tra il desiderio di normalità e la necessità di procurarsi, al più presto possibile, un’ingente somma di denaro, onde far fronte ad un’ingiunzione di sfratto per morosità. Nel film  del 2012 l’accento è posto, invece, sul crimine come modus vivendi, in cui si mescolano, in maniera alquanto azzardata, ingegno ed avventura, e la violenza a sangue freddo si unisce ai subdoli meccanismi dell’inganno. Da una storia si può anche, se proprio lo si vuole, cacciare l’anima, per farne uno spettacolo insapore e povero di significati: a ciò si riduce il cinema quando la lezione hollywoodiana diventa pura tecnica di intrattenimento, slegata da ogni ispirazione. Lo scheletro narrativo, spolpato di ogni sostanza vitale, si presta allora a fungere da supporto per singole trovate ad effetto, come, in questo caso, alcune gag che sembrano rubate alla commedia demenziale – vedi la scena del furgone issato dentro un container rimasto col portellone aperto, o i ratti che spuntano dalle cassette di frutta durante un’ispezione della polizia. I vuoti lasciati dal substrato esistenziale possono essere riempiti di bocconi di facile consumo, pensati apposta per lo spettatore privo di immaginazione. A questo target puntano evidentemente anche gli in­serti didascalici (in cui si spiega, ad esempio, che il sale si scioglie lentamente nell’acqua), le inutili anticipazioni in stile televisivo (come quello stacco della macchina da presa sul dettaglio di due dita che si muovono, ad indicare che il presunto cadavere non è tale) e gli usuali stereotipi del genere (come la scelta della regione panamense quale sede di traffici illegali). Nulla di nuovo, dunque, e tutto più o meno prevedibile (a parte qualche assurdità) con romantico happy ending in riva al mare (ed una tela di Jackson Pollock nel garage).   

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