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Regia di Ruben Östlund vedi scheda film

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La recensione su Play

di mm40
4 stelle

In una città del nord Europa una babygang di ragazzini di colore perseguita alcuni coetanei bianchi con la scusa di un cellulare rubato dai secondi ai primi.

 

Dopo The guitar mongoloid (2004) e Involuntary (2008), Play è il terzo lungometraggio diretto dallo svedese Ruben Ostlund ed è già 'maniera'. Quadretti, schegge, brevi sequenze apparentemente disconnessi fra loro si susseguono nella narrazione fino a creare la sensazione di un affresco finale; un affresco che parla della contemporaneità come uno spazio sicuro e al contempo ostile, politicamente corretto e contemporaneamente intollerante, dove si scontrano pregiudizi e necessità di accettarsi, di convivere, di collaborare. Gli affetti in tutto questo scompaiono o passano direttamente in secondo piano: è un mondo gelido quello di Ostlund, anche autore della sceneggiatura insieme a Erik Hemmendorff, nel quale il desiderio di protezione e di riparo si avverte affiorare da ogni singola parola, da ogni singolo gesto dei personaggi, pur mancando costantemente l'abbraccio, il calore, la pulsione naturale alla solidarietà: in assenza insomma di un'umanità vera e propria. Il discorso rimane però interrotto o quantomeno soffocato da una forma troppo spezzettata, cifra stilistica dell'autore, e dalla scelta di non inserire nei dialoghi sufficienti elementi per contestualizzare appieno la situazione. Presumibilmente è stato lo stesso Ostlund a rendersi conto di essere giunto a un punto di non ritorno con Play, tanto che il suo successivo lavoro, Forza maggiore (2014), pur rimanendo in linea con i contenuti e i toni della sua precedente filmografia, risulterà più accessibile dal punto di vista formale. 4,5/10.

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