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Il primo uomo

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su Il primo uomo

di OGM
8 stelle

Ci sono verità che possono essere raccontate soltanto dal basso, attraverso gli occhi di un bambino. Sarà perché toccano l’essenza primitiva della vita, quella che sopravvive, senza far rumore, al di sotto della Storia ufficiale. La rivoluzione è una questione soltanto politica. È una categoria mentale che si esprime attraverso i grandi numeri, le masse, le grossolane classificazioni dei popoli in termini di appartenenza religiosa, etnica, sociale. Ma questo superficiale criterio di suddivisione, che conta e smista gli individui, non è in grado di cogliere le loro peculiarità e quelle interazioni deboli che si chiamano i rapporti umani. Legami variamente intrecciati con l’attaccamento alla terra in cui si è nati. Jacques Cormery ha un nome francese, e francese è la lingua che parla, però è stato partorito in una cascina della campagna algerina, circondato da donne arabe, che assistevano sua madre. Contadine che aiutavano una di loro, una giovane di modeste condizioni, arrivata in quel posto in piena notte, a bordo di un carro trainato da un cavallo. La voce del sangue è quella che ci unisce alle persone, ai luoghi, alle idee in mezzo alle quali la nostra vita ha origine e si sviluppa, prendendo la forma determinata dall’ambiente. È così che si decide ciò che siamo destinati ad amare. Il piccolo Jacques, figlio di povera gente, è cresciuto, è emigrato in Francia, è diventato uno scrittore famoso ed influente. Però, dentro l’anima, è rimasto quello di un tempo, quell’essere innocente che vedeva il mondo come una realtà minuta e complessa, impossibile da ricondurre ai grandi schemi ideologici. Eppure, fin da quando era bambino, gli adulti hanno cercato di inculcargli il concetto secondo il quale la società, in ogni circostanza, è distinta in due classi, due partiti, due ruoli: ci sono i padroni e gli schiavi, i ricchi e gli indigenti, i potenti e gli invisibili. C’è chi comanda e chi obbedisce, chi commette soprusi e chi li subisce. Negli ospedali, i malati che hanno i soldi mangiano molto meglio di quelli che non possono pagare. L’accalappiacani cattura i cani, ma è a sua volta vittima degli scherzi dei ragazzini, ed è su uno di questi, infine, che compierà la sua vendetta, chiudendo il cerchio di un gioco tanto insensato quanto ingiusto e crudele. E mentre ciò accade, sulla Terra si posa uno sguardo d’insieme che non vede quei sentimenti indefinibili, e miracolosi, che impediscono alla guerra di scoppiare ovunque, ad ogni istante, facendo deflagrare l’intero impianto della convivenza umana. Si dice che i pied-noir siano gli invasori stranieri, e gli arabi il popolo oppresso. Che i primi vadano cacciati, nel nome della libertà, e che ai secondi non rimanga altra scelta che difendere i propri diritti con la violenza. Dall’altra parte, invece, si risponde che il colonialismo ha il merito di aver portato sviluppo e civiltà in una regione culturalmente ed economicamente arretrata, e che i ribelli non sono altro che volgari assassini. Tesi ed antitesi sono perfettamente d’accordo nel trascurare del tutto il principio di uguaglianza, che può realizzarsi solo attraverso il dialogo pacifico. Jacques Cormery (alter ego letterario di Albert Camus) ne è profondamente convinto. Gianni Amelio ne ripercorre il cammino immergendolo in un’atmosfera rarefatta e vagamente attonita, da pianeta dimenticato, in cui nessuno crede più possano esserci forme viventi, e, insieme ad esse, il desiderio di continuare ad abitare le strade, le piazze, i negozi in cui esse si sentono a casa. Sono creature diverse tra loro, ma hanno tutte visto la luce nel medesimo angolo di universo.  Lì affondano le loro radici, che però, dall’esterno, nessuno sembra voler riconoscere. Per Jacques, la radice è la madre, ormai anziana e sola, da sempre analfabeta, con un figlio lontano ed un fratello ricoverato in un istituto psichiatrico. Una desolazione che è esistenza autentica e vibrante, preziosa perché antica, importante perché assolutamente unica. Jacques torna a visitarla, per entrare nel suo apparente deserto, in quello che sembra il suo silenzio, ma che invece diventa un suono grave e solenne, se solo si avvicina l’orecchio alla sua timida bocca. Combattere, non con le armi, ma con la nobile forza delle parole, perché tutto ciò non muoia: è la missione di Jacques/Albert. Una dolorosa protesta che sulla carta diventa un romanzo sofferto, e sullo schermo si trasforma in una riflessione sobria e vellutata. Il ritmo è scandito dalle pause del pensiero: l’avanguardia di un vuoto che tenta, disperatamente, di contrastare l’arrivo di una devastante ondata di piena.  

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