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This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su This Must Be the Place

di LorCio
8 stelle

Così come le cene di pesce e i concerti paesani di Tony Pisapia (L’uomo in più), così come lo stetoscopio sulla porta e l’immersione nel cemento di Titta Di Girolamo (Le conseguenze dell’amore), così come la benda bianca sul capo di Geremia De Geremei (L’amico di famiglia) e così come anche il brindisi della corrente di Giulio Andreotti (Il divo), This Must Be The Place è un’immagine. È l’icona di Cheyenne, sfatta ed anacronistica, femminea e candida, parruccone nero unto e rossetto passato sulle labbra sopra un velo di cipria, smalto nero e stivaloni dark.

 

Il film è lui, si entra con lui e si esce con lui, per quanto evolva e maturi (il centro nevralgico del film sta proprio nella sua crescita tardiva e necessaria) con il background di un adolescente, con la tendenza tipica degli adolescenti più introversi (oggi diremmo degli emo, ma all’epoca di Cheyenne, che non si è ritirato da vent’anni in una grande casa lussuosa all’esterno e razionalista all’interno) di assolutizzare tutti i sentimenti e reputarsi già anziani senza nemmeno aver compiuto la maggiore età.

 

Cheyenne è un bambino ferito ma non depresso (solo annoiato, come nota bene l’innamoratissima ed amatissima moglie), laconico e beffardo, nel corpo vissuto di un cinquantenne che beve succhi da quando è uscito dall’alcolismo e non si fa una pista da secoli: non è un percorso a ritroso o una regressione, ma le conseguenze della noia derivata dall’isolamento. Cheyenne è l’ennesima variante dei vari Pisapia, Di Girolamo, Geremia, Andreotti e del Tony Pagoda di Hanno tutti ragione, con le battute secche come lame nel ghiaccio, una finta aridità che in realtà è lucidità fin troppo cosciente, l’alienazione consapevole da un mondo in cui si è certamente sommersi fino al collo ma in cui non ci si rappresenta affatto.

 

All’origine degli irrisolti problemi di Cheyenne ci sono le convinzioni di un adolescente mai cresciuto che si comporta da adolescente e non sa affrontare sé e ciò che gli sta attorno proprio per l’infantilismo di base della sua personalità. L’occasione per crescere gliela offre il caso: la morte del padre, con cui non si vede da trent’anni per un motivo stupido quanto doloroso (è convinto che non gli voglia bene). E gliela offre nella fattispecie un’ossessione di suo padre: la ricerca del gerarca nazista che presidiava il campo di concentramento in cui fu deportato il caro estinto.

 

Il cinema di Paolo Sorrentino, come osservavo in principio, è un cinema d’immagini. L’elemento più evidente e piacevole del suo esordio in terra americana (ma per metà il film è irlandese, ma siamo comunque in un altro mondo, in un mondo non suo) è esattamente la regia inventiva e smagliante, ricca di sequenze che invocano l’applauso immediatamente (il filo rosso del telefono, la piscina vuota, le bambole nella casa della vecchia moglie del nazista), impeccabili nella loro vivacità visiva, ingegnosi nella complessa quanto istantanea scrittura cinematografica.

 

Trova addirittura il tempo per infilare una specie di videoclip, che in realtà è uno splendido sfizio che il rockettaro Sorrentino si toglie per celebrare il leader del suo gruppo preferito: l’intermezzo (che nella logica del film rappresenta quasi uno spartiacque intimista) in cui un rilassato David Byrne (autore anche della bella colonna sonora e creatore di un’istallazione artistica consistente in un organo su cui andrebbero fatte mille riflessioni) canta la canzone che dà il titolo al film è una perla preziosa soprattutto grazie al controcampo con Cheyenne mimetizzato nell’oscurità della folla che si commuove di fronte all’esecuzione dell’amico (la sequenza che segue è un altro spartiacque, stavolta più plateale).

 

È naturale che Sorrentino, giunto nel Nuovomondo con significativa umiltà ma anche con carattere da vendere (cosa non riuscita al suo immediato predecessore, quel Gabriele Muccino che ha scelto la strada della retorica ruffiana per sfondare), giochi la sua carta vincente, quella carta che gli ha permesso di farsi un Nome in dieci anni di attività: l’impressionismo estetico collegato ad una narrazione originale e sfiziosa.

 

Non è il suo capolavoro, This Must Be The Place (Il divo resta il miglior film italiano degli anni, e un millimetro sotto c’è Le conseguenze dell’amore), ma è un ottimo film, evocativo e creativo, classico e nuovo, a suo modo molto più facile delle opere precedenti (la storia è tutto sommato semplice nella sua complessità, ma c’è soprattutto la giustificata preoccupazione di essere massimamente solerti nei confronti di una platea internazionale) e non per questo meno appassionante, anzi. Sa essere tante cose senza mai fare confusione: road movie (il genere più americano possibile) che riesce a non essere “dell’anima” ma “del corpo”, grottesco tenerissimo, caccia disperatamente lenta, dramma intimo e di rigenerazione.

 

Una summa personale a cui ci ha meravigliosamente abituati Sorrentino, che in sede di sceneggiatura si è fatto assistere da Umberto Contarello e si è portato appresso il fido ed infallibile direttore della fotografia Luca Bigazzi forse proprio per non disconnettersi da una dimensione di “italiana” normalità. Probabilmente farà discutere il finale della caccia spietata, probabilmente non tutti condivideranno, ma è indubbio quanto sia violento il colpo nello stomaco, per poi diventare uno buffetto affettuoso nel gran finale che determina esattamente il passaggio all’età adulta del nostro Cheyenne.

 

Che ha il volto, il corpo e l’anima di un Sean Penn in stato di grazia. Attorno a lei una manciata di attori non scontati: la dolcissima Frances McDormand (la moglie), il ruvido Judd Hirsh (il cacciatore di nazisti), il leggendario Harry Dean Stanton (l’uomo che ha inventato i trolley). Ah, tra l’altro, è un film con personaggi memorabili: su tutti, quella specie di Penelope che aspetta invano il ritorno del figlio fuggito. Occhio a lei.

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