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Margin Call

Regia di J.C. Chandor vedi scheda film

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La recensione su Margin Call

di lamettrie
8 stelle

Intelligente e atipico film di sceneggiatura sulla crisi del 2008. Tutto in interni in 24 ore, serve a far ragionare sull’etica del capitalismo. Che non c’è.

«Ho guadagnato due milioni e mezzo l’anno scorso – dice uno di loro, un giovanotto che fra l’altro accennava a buttarsi giù dal grattacielo, e che squilibrato doveva essere, come un po’ tutti appaiono nel film, a causa anche della smisurata pressione alimentata da un’arroganza senza confini -  Qualcosa mi è restato, 400 mila… ne ho spesi 80 mila in puttane».

Uno dei capi licenzia decina di persone in un’ora senza preavviso, ma piange perché gli muore il cane, che cerca di salvare in clinica a mille dollari il giorno.

La competizione non ha alcun limite etico. «È la vostra opportunità…3 su 7 si sono levati di mezzo tra voi e la poltrona del capo». Questo dopo che tanti freschi ex colleghi sono appena stati licenziati in tronco. Ma tra i “sopravvissuti” serpeggia il terrore di essere la prossima vittima di questa giostra infernale del licenziamento imprevedibile. L’incubo della precarietà attanaglia anche questi, che però hanno il vantaggio di essersi messa da parte tanti soldi, con cui non rischiare di avere problemi economici reali. Di quei problemi che invece il 90% del resto del mondo ha in caso di licenziamento.

Il discorso per chi è rimasto e per chi invece si ritrova senza lavoro è affidato a un ottimo Kevin Spacey, che lo indora con una bugia epica: «Il vostro talento è stato messo al servizio del bene comune». Ma comune di chi? Forse solo del loro team, che si è spartito un sacco di utili. Ma di bene pubblico non c’è ombra: anzi c’è proprio il fattivo e consapevole contributo alla rovina pubblica. «Sai benissimo che venderai cose che non hanno alcun valore». «Hai deciso di mandare in rovina tante persone… un bagno di sangue». Ma il capo supremo, un superbo Jeremy Irons, che non sfigura rispetto al Michael Douglas – Gekko, può rispondere al suo fidato sottoposto: «Oggi hai mandato sul lastrico tanta gente, dici a me… ma se tu lo fai da 40anni». La morale, tra ladri, non si può fare: perché il capitalismo è una grande associazione a delinquere, la più rispettabile (ma solo in apparenza) e impunita fra tutte quelle organizzazioni che si sono arricchite con l’ingiustizia sulle spalle degli altri. Ed è rispettabile anche perché ha in mano tutti i mezzi d‘informazione, che ingannano il pubblico a suon di balle: quando infatti devono giustificarsi con l’esterno, per salvare quel si può della propria reputazione (di gente che ha ingannato vendendo spazzatura), cercano un capro espiatorio. Lo cacciano, ma prima lo devono pagar bene: un ricatto ben pagato affinché non dica la verità. E questi non se la passerà male come gli altri, i comuni mortali, perché l’imperativo di questa organizzazione è ferreo, come dice uno di loro: «Ho visto cose qui, in dieci anni, che non potete immaginare… Qualunque cosa succeda, i soldi non li devono perdere loro, li devono perdere gli altri». In questa semplice citazione da Blade runner, l’inferno non è nel futuro, e neppure nella fantascienza: è già oggi, nella realtà, nell’economia lasciata gestire a privati senza controllo pubblico.

Grande è la restituzione del neofeudalesimo, una situazione sociale con cui i libri di storia dovranno sempre di più impratichirsi nei prossimi decenni, per descrivere gli ultimi quattro, almeno. Una situazione in cui la piramide sociale è inscalfibile: la differenza fra persone e libere e servi, dunque non liberi, ricalca quella odierna tra una minoranza di ricchi e una stragrande maggioranza di dipendenti non eccessivamente qualificati, e soggetti sfortunati di varia tacca. La divisione gerarchica in seno a questa società è marmorea. Questo ritorno a rapporti sociali di tipo medievale, quanto alle inaccettabili disuguaglianze sociali in termini di possibilità reali, ha l’unica differenza che oggi non è garantita da una sanzione teocratica, e che dunque non apparirebbe così granitica, in quanto il ricco può impoverirsi, se non cura a dovere i suoi affari. Ma anche lì, le possibilità di una vera apertura sociale (che certi poveri si possano arricchire e fare concorrenza a dei ricchi incapaci di mantenere il proprio livello) si è andata sempre più assottigliando dagli anni ’70: è noto, fra l’altro, come proprio dopo la crisi terribile iniziata nel 2008 tutti ci siamo impoveriti, tranne solo pochissimi ricchissimi, che si sono arricchiti (e che sono fra l’altro l’unica vera causa di questo macello sociale, come il film fa notare). E solo perché hanno in mano anche il potere politico e chi fa le leggi, non per giustizia e merito o per altro. Irons recita alla perfezione la parte del capo capitalista, che ha pienezza di poteri, come un monarca assolutista, sulla sua azienda, che in casi come questo è più ricca e potente di tanti stati. È attorniato solo da leccapiedi, che lo onorano in ogni modo, facendogli sentire incondizionatamente il peso della propria inferiorità.  

Un film veloce (poco più d un’ora e mezza), ottimo esordio alla regia per l’allora 28enne Chandor, che ha scritto integralmente pure il testo, assai denso e inquietante, ben sospeso fra il thriller e il dramma, in mezzo a silenzi e atmosfere rarefatte.

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