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Ballata dell'odio e dell'amore

Regia di Alex de la Iglesia vedi scheda film

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La recensione su Ballata dell'odio e dell'amore

di supadany
8 stelle

Non sorprende affatto che “Balada triste de la trompeta” sia stato amato da Quentin Tarantino che da Presidente di Giuria lo incoronò con un doppio premio, per regia e sceneggiatura, al Festival di Venezia del 2010.

E’ infatti un’opera debordante, non per tutti, tanto ricca di talento quanto eccessiva e rischiosa nelle sue modalità espressive.

1937, Guerra Civile Spagnola, un pagliaccio viene arrestato, suo figlio Javier prova a liberarlo ma durante il suo tentativo vede il padre morire.

Parecchi anni dopo, negli anni della dittatura, Javier (Carlos Areces) viene assunto in un circo per essere un pagliaccio triste, soggiogato, non solo in scena, dal collega Sergio (Antonio De La Torre) dal quale vorrebbe strappare l’amore della bella Natalia (Carolina Bang).

Quando è impossibile ragionare si apre la strada della violenza.

 

 

Fulminante ed irregolare, capace di creare sobbalzi improvvisi come di spegnersi e trascinarsi per alcuni minuti, Alex De La Iglesia, andando volutamente (ben) al di sopra delle righe, riesce a trasmettere sentimenti sinistri immersi negli eccessi in un prolungato turbinio, questo per quanto vi sia innegabilmente il rischio di travolgere tutto e tutti senza attecchire se non per alcuni squarci ad ogni modo indimenticabili (nel bene o nel male).

Su tutto, abbiamo pagliacci collerici (il clown che da comico diventa sanguinario fa sempre effetto, qui ancora più del solito), per una ballata grottesca sul filo del melodramma, estrema nelle sue imprendibili traiettorie con maschere che incutono timore se non terrore o disagio.

Ed è così che assistiamo ad atti di prepotenza, ad una violenza tirannica (quindi non solo fisica), trasformazioni umorali, tutto sviluppato tra un sospinto lirismo e un perturbante disturbo con un generale attivismo figurativo che si fa metafora dei danni inferti ed indelebili di anni di dittatura.

Anche il finale, che s’impenna ulteriormente, non è nient’altro che il marchio di fabbrica definitivo per un’opera che segna una delle vette più alte della carriera di Alex De La Iglesia a partire dalle ambizioni intrinseche al soggetto che raramente hanno affollato in tal modo le sue opere.

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