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Hereafter

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Hereafter

di OGM
4 stelle

Con questo “Babel” franco-inglese del trapasso, Clint Eastwood (ri)visita gli arcinoti luoghi dell’aldilà, dalle esperienze di pre-morte alle visioni medianiche, senza aggiungere nessuna – ma proprio nessuna – nuova idea o sensazione. La trama si adagia, un po’ svogliatamente, sugli scontati riferimenti offerti dalla cronaca internazionale del terzo millennio, dallo tsunami nell’Oceano Indiano agli attentati nella metropolitana londinese (e perché non l’11 settembre?), per introdurre una problematica che viene poi totalmente elusa. Anziché affrontare il delicatissimo argomento della morte con la giusta onestà e modestia, rispettandone il carattere per noi irrimediabilmente misterioso, ambiguo e sfuggente, il film lo ricopre un po’ impudentemente di facili certezze, come l’esistenza (clinicamente documentata!) di un luogo ultraterreno calmo e luminoso, e la possibilità, per i defunti, di parlarci e proteggerci come personali spiriti guida. Il dolore – lo sappiamo bene – apre da sempre, al cuore, le strade del sogno poetico e della favola consolatoria, che sono sublimi fiori dell’immaginazione sentimentale, in cui l’amore umano punta verso il cielo, aspirando ad imitare le forme di quello divino. Tuttavia la tesi sostenuta in questo film, che riconduce tutto ad una semplicistica fenomenologia paranormale, ha più la veste di una romantica ciarlataneria, che si affretta commossa a confezionare le risposte, senza minimamente degnarsi di riflettere per formulare le domande come si conviene.  
La morte come tragedia universale, che accomuna l’umanità a livello globale e che avvicina le singole anime a livello locale, è presentata come l’incubo onnipresente e inevitabile, di cui tutti (compresi i protagonisti di questa storia) cercano con ogni mezzo di negare la natura fatale, definitiva ed annientatrice: questa è, senza dubbio, una sacrosanta constatazione antropologica di fondo, che, però, di per sé,  non ci porta avanti di un solo passo. Il più grave errore non è, come vorrebbe farci credere la “rediviva” Marie Lelay - tornata indietro dal regno dei defunti grazie ad un tempestivo intervento di respirazione assistita - rifiutarsi di vedere la morte come l’inizio di una nuova vita,  bensì abbracciare entusiasticamente qualunque barlume di soluzione alternativa, innalzandolo, istantaneamente,  al rango di Verità con la V maiuscola. Il ruolo profetico che questa donna  - giornalista televisiva di successo – assume con il suo libro autobiografico è quantomeno imbarazzante: non sono pochi secondi di allucinazione a trasformare un individuo nel portatore di un messaggio messianico. Questa banalizzazione del concetto di Rivelazione ci farebbe sorridere, se non ne conoscessimo i pericolosi effetti sulla collettività: e, per inciso, se è vero che  - per gli agnostici come per i credenti – di fronte alla morte siamo tutti uguali, logica vuole che nessuno di noi uomini possa pretendere, in questo ambito, di saperne più degli altri.

Su Clint Eastwood

Impressionante  è la disomogeneità di stile tra il cappello introduttivo da kolossal catastrofico (fatto apposta per attirare pubblico e premi) e tutto il resto del film che, anche tecnicamente,  per lo più vivacchia mestamente nella più piatta medietà.
Buone solo le scene relative alla scuola di cucina. 

Va detto che vedere un grande regista sfornare prodotti di tal fatta ci dispiace, e ci dispiace sempre, e fortissimamente ci dispiace.

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