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Happy Family

Regia di Gabriele Salvatores vedi scheda film

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La recensione su Happy Family

di FilmTv Rivista
6 stelle

Il gusto delle famiglie eccentriche, disfunzionali ed educate dei film di Wes Anderson. I rapporti incasinati dell’autore e dei suoi personaggi dei film di Charlie Kaufman, Spike Jonze e Michel Gondry. Una Milano scintillante e tersa come un ciottolo levigato al sole, percorsa dalla sorniona ebetudine degli occhi di Fabio De Luigi. Un Bentivoglio il cui sguardo alla Lebowski campeggia nell’inquadratura da molto prima che afferri tra le dita la prima canna della sua vita, dopo aver scoperto, serenamente, un tumore incurabile: la chimica e la metrica del film (tutta sguardi in macchina e apertura e chiusura di capitoli e paragrafi come in un programma di computer) non appartengono alla routine industriale del cinema italiano e neanche alla musica del cinema di Salvatores. Tranne l’arpeggio mitico e irresistibile di Paul Simon quando era ancora in coppia con Garfunkel: è uno dei personaggi (l’arpeggio) più originali del film. Lontano dal grottesco Made in Italy come dal barzellettismo del cinepanettone, Salvatores (e il suo produttore, Maurizio Totti) provano ad aprire la finestra e a portare aria nuova nella sala da pranzo dei film italiani. Credo che ogni spettatore di cinema debba essere loro grato, per questo, ma anche per il più divertente Abatantuono da molti anni a questa parte. Il risultato, del resto, non è banale anche se il suo romanticismo (amore e morte giungono a stoico compimento senza strappi o disinganni) è meno convincente dello sguardo dolce e vago, umbratile e tenero, che si respira a ogni inquadratura. Quando ha tra le mani un copione di buona costruzione (suo e di Alessandro Genovesi), ricco di spigoli e battute, e un team di attori affiatati (la Buy, come spesso le accade, primeggia), il regista di Mediterraneo raramente non centra lo specchio della porta. E così anche queste sue famiglie, di adulti smarriti e adolescenti atterriti, in cui non c’è una sola uscita di Abatantuono che non regali un attimo di esplosiva gaiezza. Allora anche la bella luce di Petriccione sembra parlare una lingua meno provinciale del nostro italiano cinematografico.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 12 del 2010

Autore: Mario Sesti

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