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Somewhere

Regia di Sofia Coppola vedi scheda film

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AlbertoBellini

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La recensione su Somewhere

di AlbertoBellini
10 stelle

 

Lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco e non ce la fai più. E d'un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno - uno sguardo umano - ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice.” 

(Andrej Tarkovskij)

 

Che dire... iniziare un discorso che possieda un filo logico in casi come questo è assai difficile, poiché il tema che si va a trattare risulta delicato, complicato, non tanto per chi scrive, ma piuttosto per chi andrà poi a rapportarsi con un punto di vista discorde, e facilmente fraintendibile. Se ne sono dette e sentite di tutti i colori circa l'opera in questione; tra chi lo ha letteralmente distrutto, spesso con un'ironia di fondo che mi è del tutto estranea, a chi lo amato o semplicemente apprezzato, magari senza nemmeno sapere perché. Eppure, sono convinto che in questo oceano di analisi gran poco - se non nulla - sia trasparso dalla quarta regia di Sofia Coppola. Opera che ha generato un putiferio, dalla sua distribuzione nelle sale cinematografiche alla vincita del Leone d'oro della 67ª mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Dal mio canto, un riconoscimento simile fu il minimo, per quanto inaspettato. Evidentemente il buon Quentin, l'allora presidente della giuria, ha visto nella propria ex-anima gemella ciò che i miei occhi, forse inconsapevolmente, hanno saputo scrutare. Questo, oltre ad avvicinarmi ulteriormente a colui che mi ha cresciuto ed introdotto alla settima arte, mi ha fatto capire che Sofia Coppola, per il cinema odierno, non è solo preziosa, ma fondamentale. A proposito della sua figura, ella non ha mai usufruito del proprio cognome per porsi con arroganza e supponenza tra i cineasti contemporanei; al contrario, per quanto mi riguarda, per sin troppo tempo se ne è stata all'oscuro dai riflettori che, invece, avrebbero dovuto puntare costantemente su di lei. In un'età difficile e ingenua, noto che questo cinema in particolare, sincero ed intimo, viene spesso smantellato e accantonato con troppa banalità. Certo, non è un dato di fatto per il quale stupirsi; ma è sempre bene rammentarlo.

Qui di seguito, il mio personale e sconclusionato parere su Somewhere, mio 'Film della vita'.

 

Somewhere. Da qualche parte. Somewhere, vocabolo dalla tonalità vocale intensa, leggiadra e fascinosa, che sta ad indicare un luogo sconosciuto, ma ben preciso. Un luogo ove poter trovare, o ritrovare, il famigerato senso della vita, nel quale si spera di incappare per una salvezza ultraterrena. Ognuno di noi - nessuno escluso - è alla ricerca di quel Somewhere. C'è chi sa con assoluta certezza dove andare a cercare, e persino cosa vi troverà una volta arrivato, e chi invece non ne ha la più pallida idea. Ci disperiamo al solo pensiero di abbandonare questo mondo senza prima aver trovato quel luogo misterioso, terrorizzati dall'idea di mancare quello che può rappresentare il traguardo definitivo; proprio come il protagonista Johnny Marco (interpretato dal bravo Stephen Dorff), marito e padre fallito, la cui visione è stata per svariato tempo offuscata dai piaceri artificiali di una vita artificiale, che di 'vitale' ha avuto ben poco. Sin dal primo minuto, ci viene mostrato per quello che è: un uomo completamente perso, privo di risorse - se non quella di avere un bell'aspetto -, la cui unica certezza è la sua ferrari nera, con la quale solca a vuoto le vaste lande del deserto californiano. Johnny non ha una meta, non ha un obbiettivo, nemmeno sa dove si trova. L'intera esistenza di un uomo, ridotta ad una corsa in auto. L'uomo che evidentemente, non per pigrizia o per meschinità, ha sempre intrapreso la strada sbagliata. L'uomo alla ricerca di una qualsivoglia risposta alla domanda "Chi è Johnny Marco?".

 

 

(Lost for Life)

 

Una volta, Sir Alfred Hitchcock disse "Drama is life with the dull bits cut out". Penso che questa frase riassumi perfettamente ciò che è stato, e rimane tuttora, il cinema rivoluzionario del cineasta britannico. Al contempo, sono dell'idea che la medesima possa perdere di significato nel pensiero di cinema che oggi prevale; e forse, quella fu l'unica occasione in cui uno dei più grandi geni del cinema si sbagliò, o forse no. Tutto sta nella maniera con cui si pensa, e si guarda, al dramma. Bisogna poi tenere in considerazione ciò che un dramma vuol esporre, raccontare; Somewhere, per esempio, con 'le parti noiose tagliate' non esisterebbe; il totale cinema di Sofia Coppola non esisterebbe, nemmeno il Woody Allen autore e tante altri proficue menti che hanno fatto uso del mezzo cinematografico per rappresentare svariate sfumature di vita sul grande schermo. Perché sì, coloro che hanno denunciato un profondo senso di noia durante la visione di Somewhere, in un certo senso, ci hanno visto 'giusto'. Somewhere è, volgarmente parlando, un film sulla noia, un manifesto dello smarrimento esistenziale. E per poter analizzare Somewhere è necessario tenere presente un fattore molto importante ed inequivocabile: l'essenza dell'arte di Sofia Coppola non ha tempo. Ella si è sempre impegnata, sin dal suo esordio, nell'ignorare e oltrepassare il tempo che scorre sul grande schermo - e che contraddistingue il cinema dalla televisione o dal teatro -, permettendosi così di dare vita ad una propria visione di immagini e suoni, capace di reinventare il mezzo cinematografico stesso; le immagini grazie ad una fotografia dai colori caldi e accesi, ma freddi e spenti, che sembrano variare con lo stato d'animo dei personaggi in quel momento in scena, e i suoni con un utilizzo delle musiche unico, accurato ed inconfondibile. Questa volta Sofia sceglie di ridurre la colonna sonora ad una manciata di brani, per lo più strumentali, quali My Hero dei Foo Fighters, Cool di Gwen Stefani e Love Like a Sunset dei Phoenix, mantenendo il silenzio per buona parte del film, poiché è il silenzio il vero coprotagonista.

Oltre alla meravigliosa fotografia, qui curata dal defunto Harris Savides (storico direttore della fotografia di Gus Van Sant) -, un altro elemento indispensabile che caratterizza le immagini è la staticità, la quale non ha di certo agevolato Sofia Coppola ad ottenere il consenso da pubblico e critica, poichè il suo è un cinema immobile, che non presenta alcun tipo di movimento, se non quello dello sguardo. Qui non esiste la frenesia di Guy Ritchie, la comicità di Wilder, la violenza ironica di Tarantino, la spettacolarità di un Wyler o la sperimentazione effettistica di Cameron. Questo è un cinema che oggi viene accolto da pochi autori - si pensi a Woody Allen, al recente periodo artistico di Pablo Larraìn, a David Fincher, all'appena citato Gus Van Sant, o al maestro Paul Thomas Anderson; di quest'ultimo, in particolare, voglio prendere in considerazione il suo Boogie Nights. Il film, che narra le vicende di un giovane alle prese con il vasto mondo del cinema pornografico, presenta una sequenza molto importante e in perfetta sintonia con il film della Coppola: nel vivo di una scena a luci rosse tra i personaggi di Mark Wahlberg e Julianne Moore, la macchina da presa di Anderson si posiziona frontalmente alla cinepresa del cameraman; qui comincia una lentissima zoomata verso l'obbiettivo, quasi come un duello metacinematografico tra il mezzo interno e quello esterno. Rispettivamente in Somewhere troviamo una sequenza molto simile, immediatamente dopo i titoli di testa: Johnny Marco, sdraiato sul proprio letto, assiste alla pole dance di due giovani gemelle bionde. Ove in Boogie Nights, Anderson fissava "il grande occhio" mentre quest'ultimo a sua volta immortalava un momento di finto sesso, qui la Coppola osserva con curiosità (e compassione) un uomo che neppure nel sesso trova quella fantomatica e desiderata salvezza.

 

 

[Le due sequenze messe a confronto (sopra Boogie Nights, sotto Somewhere): l'essere umano si pone alla condizione di uno strumento creato dallo stesso; tra l'occhio e il soggetto si crea un murale, intento a distanziarli, come un guscio isolante che separa i due elementi]

 

 

Osservare, tuttavia, non significa costringere lo spettatore ad immedesimarsi e provare pietà o rancore nei confronti di ciò a cui sta assistendo. Somewhere infatti non vuol raccontare il pessimismo Leopardiano, la depressione o la solitudine che possono affliggere chiunque, indipendentemente dalla disponibilità di denaro, ma anzi si limita, appunto, nell'osservare; nel costruire un'intera opera attorno a dei caratteri che non possono far altro che osservarsi tra loro, impossibilitati di comunicare in alcun modo. Basti pensare al battibecco tra Johnny e l'attrice collega interpretata da Michelle Monaghan, i quali un attimo prima sorridono abbracciati agli occhi delle telecamere. Tutto sembra andare per il verso sbagliato, di peggio in peggio, sino all'arrivo della figlia Cleo (la meravigliosa Elle Fanning). I due apparentemente hanno un punto di contatto, nonostante si crei anche in questo caso una sorta di murale - vedi la performance di pattinaggio su ghiaccio, durante la quale Johnny, impegnato a guardare lo schermo dello smartphone, a tratti sbircia la figlia che vorrebbe essere ammirata e incitata dal babbo. Di lì a poco, il protagonista si renderà conto che, forse, è proprio il sangue del suo sangue ciò che può permettergli di "redimersi"; i due non si perderanno più di vista, Cleo ritroverà un padre che con la separazione dalla madre non c'è più stato, e in Johnny si riaccenderà una piccola fiamma, la cui luce lo accompagnerà con serenità in quelle giornate, ora, spese in compagnia dell'unica persona che prova per lui un amore genuino. Johnny la porterà con sé anche a Milano, ove l'attore dovrà ritirare un premio conferitogli da nientedimeno che Simona Ventura e Nino Frassica, per poi ritrovarsi a ballare con Valeria Marini; attimi volutamente imbarazzanti, i quali non fanno altro che riconfermare, ancora una volta, la possibilità che ha il cinema di nascondere la realtà, di mascherare ciò che comunque risulta palese - momento chiave che si ricollega ad un piccolo cameo di Benicio del Toro, nonché al "mascheramento" di Johnny, solitario, costretto dall'immobilità del lattice bianco che gli ricopre il volto, in attesa spasimante del risultato finale: diventare vecchio, e accorgersi di aver gettato via la propria vita.

 

 

Un rapporto padre/figlia così ben raccontato e inscenato, a mia memoria (e conoscenza), in gran pochi sono riusciti ad eguagliarlo. Se non altro, è il modo con cui Sofia riesce - in questo caso sì, volutamente - ad accendere delle piccole emozioni in chi guarda che stupisce; e stupisce la scelta di porre questa relazione senza risultare invadente agli occhi di miliardi di persone, senza 'parti noiose tagliate'; e la prova inconfutabile sta nella sequenza madre, la più bella del film e del suo cinema, quella della piscina: con un campo ed un controcampo, sott'acqua, viene ribadita una volta per tutte l'impossibilità di comunicare con le parole, l'impossibilità di udire. Un momento di assoluta intimità, di timidezza, accompagnato dalle leggiadre note di I'll Try Anything Once dei The Strokes. Alla fin fine siamo sempre lì, a parlare di sguardi, di immobilità, della musica che ci accompagna come accompagna Johnny, che sembra aver trovato finalmente Somewhere e il suo significato, al di là del sesso, della fama, della non-notorietà e del Dio denaro.

 

 

Virgin Suicides, Lost in Translation e Marie Antoinette, ognuno a modo proprio, hanno tutti narrato le sincere vicende di individui reali, dalle personalità discutibili, ma reali. Si potrebbe dire che i film e i caratteri che i medesimi inseriscono in scena siano inversamente proporzionali tra loro. Là dove il protagonista si mostra sicuro di sé, felice e realizzato, nascondendo un'immane vuotezza interiore, il film manifesta ad ogni inquadratura, tale vuotezza, e si riserva un mondo per chi riuscirà a guardare più a fondo. Il cinema della Coppola non è vuoto, ma vuol dar l'idea di esserlo, perché così sono i suoi personaggi. L'esatto contrario di ciò che quotidianamente fa l'essere umano, tanto impegnato nel voler apparire come un qualcosa che non è e non sarà mai. C'è un motivo ben preciso per cui Somewhere, considerato il peggior lavoro della cineasta italoamericana, è invece quello che custodisce l'essenza artistica citata poc'anzi. Somewhere è il punto cardine della regista e del suo pensiero: tutti i caratteri, che sia la Maria Antonietta di Kirsten Dunst o il Bob Harris di Bill Murray, sono alla mercé della propria esistenza, pur cercando di nascondere questo dato di fatto - chi può, con la ricchezza e il lusso. Sono tutti alla ricerca di quell'ignoto Somewhere, che i soldi non possono comprare né svelare. 

 

Se, per l'appunto, Somewhere si sviluppa come i precedenti lavori, anche qui si giunge ad una conclusione apparentemente benefica, che però svela nell'immediato un ulteriore carta onnipresente, ovvero l'abbandono: l'abbandono della libertà in Virgin Suicides, l'abbandono del vero amore in Lost in Translation, l'abbandono di Versailles e dell'eterna bambagia in Marie Antoinette. Ed è così che il padre dovrà separarsi dalla figlia; nonostante questa sia impegnata in un semplice campeggio, agli occhi di Johnny ciò appare come un addio definitivo. Impossibile biasimarlo, in fin dei conti egli aveva appena (ri)scoperto un lato della sua vita, il più importante, rimasto all'oscuro per troppo tempo. Che fare dunque, se non ricadere nell'infinito spirale di vuoto, chiuso dalle mura di quell'hotel che a lungo lo ha ospitato, come un eterno limbo.

 

 

“I’m fuckin’ nothing. I’m not even a person.” 

(Alone again, naturally

 

Si ritorna così al punto di partenza. Il mondo gli ricade nuovamente addosso. Ma è un attore, dopotutto, potrebbe ottenere qualsiasi cosa desidera. Ci si interroga, tra un piatto di pasta accompagnato da una birra e una telefonata notturna, per chiedere al proprio interlocutore, chiunque esso sia, cosa ci facciamo ancora qui. Quel "Chi è Johnny Marco?" resterà un punto interrogativo per l'eternità. O forse no. Una lieve luce di speranza si è accesa; i momenti trascorsi con la figlia sembrano aver riconferito al padre le forze (e il coraggio) necessarie per quantomeno tentare di voltare pagina. Infine, Johnny Marco a bordo della sua ferrari, tornerà nel bel mezzo del deserto. Eppure, nel nulla, anziché vagare a vuoto, questa volta sembra avere un obbiettivo ben preciso. Sceso dalla vettura, inizia a camminare e si dirige verso il tramonto. Verso la fine, verso un nuovo inzio. Verso la vita. Verso Somewhere.

 

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