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Il mio amico Eric

Regia di Ken Loach vedi scheda film

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La recensione su Il mio amico Eric

di logos
9 stelle

La trama di questo film è molto diretta e chiara: abbiamo il postino Eric (S. Evets) che è completamente disorientato, non riesce a dimenticare la donna che ha sempre amato, Lily (S. Bishop), dalla quale si è separato, e come se non bastasse, la loro figlia Sam (Lucy-Jo Hudson) chiede al padre Eric di tenere un’ora in più la sua propria piccola bambina, e lui, come nonno, non esita a dire di sì, ma con la clausola che deve poi riportare, per motivi logistici, la nipote dalla propria moglie. Ciò lo porta alla disperazione, non riesce ad affrontare Lily che ancora ama, perché ha un blocco nel proprio passato, e nel frattempo vive con due altri figli, Ryan e Jess, di una donna che lo ha abbandonato. Sono ragazzi sgangherati, che non hanno stima in Eric, che lo vedono egoista e disordinato, e perciò, come rivalsa, fanno quello che vogliono, mettendo in subbuglio tutta la casa, in particolare il più adulto, Ryan, che si è messo a fare lo scagnozzo di un malavitoso, del quale custodisce la rivoltella, e ad ogni comando del malavitoso il ragazzo è costretto a dare e a rimettere la pistola in casa propria, così, se caso mai scappasse il morto, la colpa ricadrebbe tutta su Ryan e sulla sua famiglia.

 

Il film tratteggia tutte queste dinamiche in maniera ineccepibile, mescolando commedia e drammaticità, senza mai cadere nel patetico o nel retorico, ma soprattutto fa scorrere in filigrana la solidarietà, manifestata dai colleghi postini di Eric. Lo vedono in crisi depressiva, perciò durante il lavoro cercano di tirargli su il morale con sequenze di battute, apprese da un manuale per ridere acquistato per l’occasione. Ma Eric non si rialza. I compagni ne tentano di tutte: sempre con l’aiuto del manuale si riuniscono in casa di Eric per immaginare il leader che amano e di essere guardati con gli occhi compiaciuti di quella persona, in modo da sentirsi fieri di se stessi. La seduta inizia e vengono fuori alter ego di grande qualità, tra cui Gandhi, Mandela e lo stesso Fidel Castro, ma Eric tira fuori il suo grande mito, Eric Cantona, il grande calciatore del Manchester.

 

Vediamo Cantona materializzarsi, accompagnare Eric verso un viaggio interiore, concitato, che ci ricorda persino i grandi pezzi di Woody Allen, ma tutto all’insegna di un “passaggio”, che vuol dire tutto. Passaggio significa passare la palla, avere fiducia nel lavoro del compagno, perché non si è soli al comando; passaggio significa anche far passare, farsela passare, passare il passato, trasformare il passato, riviverlo e proiettarlo nel futuro. E così Eric inizia, grazie al grande Eric, ad affrontar a muso duro l’esistenza. Trova il coraggio di riallacciare i contatti con la donna Lily, e si viene a sapere, nel dialogo tra di loro, che l’abbandono di Eric era stato preceduto da un attacco di panico, che lui aveva ricostruito nella sua memoria come rimprovero del padre di aver messo su una famiglia prematuramente, senza responsabilità. Si viene a scoprire che il suo abbandono fu dettato da un insopportabile senso di inadeguatezza di fronte agli impegni della famiglia, ma ora Eric lo sa, perché ne parla con Lily, e parlandone si passano il passato, e passando il passato si ritrovano nel presente, trasformati insieme per costruire una svolta.

 

Loach non solo mescola con raffinatezza la forza della socialità, della colleganza tra i compagni, con la riscoperta interiore attraverso il dialogo, ma mette in evidenza che anche la coscienza di sé, delle proprie possibilità, può passare anche attraverso il potere carismatico di un leader, come ad esempio lo stesso Cantona. Come mai Loach ci propina questa possibilità carismatica, ben individuata nello stesso Cantona? Possiamo rispondere che Cantona esprime la versatilità, la sua bravura di attore oltreché naturalmente di calciatore. Possiamo spendere mille parole su Cantona, ma a me personalmente interessa perchè un regista come Loach faccia prendere coscienza a Eric attravero un alter ego carismatico. Non è una mossa facile, tanto più fatta da una regista sempre critico contro il potere. Forse qui Loach ci vuole dire una cosa molto importante; che la presa di coscienza, soprattutto se poi diventa un'istanza collettva di lotta, ha bisogno di una pianficazione, di un'organizzazione, di un centralismo democratico.

 

C'è nel frattempo tutta la storia del malavitoso che mette nelle grane il  Ryan e lo stesso Eric, che proprio per questo viene con Lily arrestato e poi rilasciato per assenza di prove; una storia che fa precipitare la vita di Eric il postino in un dramma che sembra essere irrisolvibile. Ma c’è una cosa che ora Eric il postino ha imparato da Eric Cantona: che ci sono sempre più possibilità di quanto possa sembrare, perché la realtà lascia sempre uno spazio di azione per la sua trasformazione pratica (prassi), grazie all’aiuto dei compagni. E sarà proprio in una formidabile unione con i compagni, che Eric andrà fino in fondo, nella casa del malavitoso, per umiliarlo, con tanto di ripresa in diretta, come costui aveva fatto contro Eric spiacciacando su youtube. 

 

A un primo sguardo potremmo dire che qui K. Loach si prenda una pausa dalle le cose serie, dalla sua corrosiva critica contro “questo mondo libero”, e si abbandoni a una commedia variegata, con tocchi sapienti di drammaticità dosata con l’ironia e con la tattica del mito onirico. Tutto questo ci sta, ma in questo modo Loach gioca con simboli quanto mai radicali; l’apprezzamento del potere carismatico come atto di coscienza, per dirla in breve, rappresenta, a mio giudizio, la presa di coscienza di classe. Non a caso Eric, grazie a Eric, si libera dalle sue chiusure e manie piccolo-borghesi, mette in atto strategie di relazione, che a loro volta rinforzano lo spirito di gruppo, che si alimenta nella comunanza del lavoro, nella dignità di essere postini. I postini sono quelli che lavorano, ma in più sono quelli che lavorando fanno viaggiare l’informazione, e così creano un collettivo organizzato, per panificare una lotta. Una lotto contro chi? Contro i disonesti, contro quelli che non lavorano sulle spalle degli altri, che continuano a rubare umiliando (sfruttando) la forza lavoro, vale a dire, appunto, i malavitosi. E quando tutti insieme i postini entrano nella villa del malavitoso, si assiste a una vera e propria simbologia della rivoluzione, a una presa del palazzo di inverno. Forse in questo film, Loach è più impegnato che mai a ricordarci che “In questo mondo libero”, fottutamente libero, c’è solo la lotta reticolare che può salvare, quella che si costruisce giorno per giorno stando in relazione continua, perché l’uomo, fino a prova contraria, resta un essere sociale, con tutta la sua coscienza di esistere, una socialità che, però, non è data per scontata, ma si deve conquistare, in una lotta comune per il comune, contro le armi affilate di questo mondo libero, che ci vuole liberi fino alla solitudine per renderci inerti.

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