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Pranzo di ferragosto

Regia di Gianni Di Gregorio vedi scheda film

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La recensione su Pranzo di ferragosto

di ROTOTOM
8 stelle

Gianni di mezz’età e sua mamma Donna Valeria. I nomi sono veri, ricalcano la finzione che finzione non è. E’ lo stesso sguardo di Gomorra, vero e falso insieme che Gianni di Gregorio – complice di Matteo Garrone nella sceneggiatura, appunto, e che qui produce- ha portato nell’intimità di una casa romana per farne un piccolo gioiello di dolcezza e malinconia. Gianni che ciondola nell’afa agostana tra casa, osteria e negozio di alimentari, imbevuto di un presente appiccicoso che non ne vuol sapere di colare in un qualsiasi futuro e Donna Valeria nobildonna decaduta di stropicciata bellezza, plastificata nel suo passato di classe, affettate buone maniere e un pizzico di insofferenza snob della quale mantiene la forma nonostante una sostanza fatta di debiti e ristrettezze. A loro si aggiungono altre tre ospiti, tutte ottuagenarie, parcheggiate dai rispettivi parenti (l’amminstratore e il medico di famiglia di Gianni) sotto sottile ricatto, per liberarsi dalla loro presenza il giorno di ferragosto. Piccolo film d’interni, ingombro di vita inaspettatamente rivelata dall’incontro delle quattro arzille vecchiette animate dalla solidarietà disillusa di chi ha i giorni contati. A partire da quello che stanno vivendo. Allo spaesamento e alla dispersione egoistica delle famiglie moderne fa da contrasto l’unione bizzarra di una sparuta rappresentanza del tempo che fu non disposta a farsi mettere anzitempo sottoterra come sembra sia successo, dal punto di vista sociale, al rassegnato Gianni , gentile anfitrione che nasconde nello sguardo la terribile consapevolezza della sconfitta. L’interessata indulgenza verso le capricciose vecchiette da parte di Gianni, viene smantellata dall’acido umorismo del quale è rivestita questa storia di sguardi e gesti, di lagne e nenie, di ricordi e malinconia. Pranzo di Ferragosto è soprattutto un film pregno di una grande romanità, l’anima che muove i personaggi annaspanti nell’afa della capitale deserta, immota e innaturalmente silenziosa come una tomba, è l’anima del romano, non quello “de Roma” verace e un po’ cafone, ciarliero e iconizzato dall’italiano medio di stampo Sordiano. E neppure quella “sozza”, di borgata declamata dal Mondezza di Tomas Milian. E’ la romanità vera, della case patrizie restituite ad una borghesia zoppicante, dei perdigiorno da osteria, di quella gentilezza morbida e liquida accentuata da una lenta, subacquea cordialità gestuale. La romanità illuminata dal sole che irrompe nelle stanze e nelle serate dolci, nel Tevere come amico e gli amici del Tevere che diventano a loro volta amici. La solidarietà disinteressata dell’amico stanziale, un fiore di Roma cresciuto tra i sampietrini e con un soprannome del quale si è persa qualsiasi giustificazione plausibile. Er Vichingo. “Daje a Viky”, quando si stappa la bottiglia nel rito tutto romano della tavola imbandita. E poi sarà quello che sarà, nella particolare, pigra sudditanza che i romani hanno nei confronti del destino. Un destino che le quattro novelle amiche riescono a piegare al loro volere. Coi soldi. Una sorpresa questo Pranzo di Ferragosto, scritto benissimo e diretto in modo estremamente naturale da Gianni Di Gregorio, il cui stile di ripresa è debitore evidente di Matteo Garrone. Scivola sui volti delle non-attrici, bravissime e molto dolci nel loro essere naturali tanto da non escludere improvvisazioni di una personale contaminazione biografica della sceneggiatura. Come in qualsiasi buon film, l’importante sta in tutto ciò che manca, nelle sospensioni, negli sguardi, silenziosi, nella sottrazione della sceneggiatura asciutta che rifugge la pesantezza del Tema, allontana lo spettro della Retorica, schiva la lama del Giudizio e semplicemente, mostra poiché è tutto lì, in quegli occhi vispi incastonati su volti segnati che si può leggere la fine della storia, a pelle. Esattamente come all’inizio Donna Valeria si fa descrivere fisicamente D’Artagnan dal figlio Gianni che le legge il libro, riuscendo a ricavarne un carattere. Così come Maria leggendo le scritte sulle mani vissute delle amiche ne ripassa il passato risvegliando ricordi. La pelle non richiede troppe parole.

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