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Oxford Murders. Teorema di un delitto

Regia di Alex de la Iglesia vedi scheda film

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La recensione su Oxford Murders. Teorema di un delitto

di ROTOTOM
4 stelle


Oxford Murders è un mistery da camera, un Cluedo giocato con personaggi veri in cui simboli, logica, filosofia, razionalità e sentimento si mischiano a formare un intreccio alla Agatha Christie. Si parte dal Trattato logico filosofico di Wittgenstein e muore una vecchietta, si discetta di Borges e schiatta un degente di un ospedale, si dipana Fibonacci sulla dipartita di un orchestrale, si saccheggiano simbolismi metafisici ed evaporano una decina di ragazzini down.
Contrapposizioni. La verità assoluta contrapposta alla casualità della vita; la logica dei modelli matematici contro la filosofia che guida le fallaci umane azioni; la forma intellettuale della materia contro la sensualità esibita e inspiegabile di un corpo femminile dalle forme generose coperte da una salopette; Alex de la Iglesia punta in alto, troppo forse per il talentuoso regista spagnolo abituato a storie di bel altro tenore. Storie bizzarre, personaggi al limite del freak o borderline inseriti in contesti che in apparenza normali rivelano invece feroci contraddizioni. Il tutto filtrato da un uso massiccio dell’ironia e del sarcasmo, in un gioco all’accumulo parossistico che ne aveva fatto le fortune soprattutto nel delirante primo film Action Mutante fino a La Comunidad e Crimen Perfecto. In Oxford Murders invece rimane ingabbiato in una sceneggiatura (scritta da egli stesso) che non consente divagazione alcuna, il suo talento rimane inespresso e inespressivo nella messa in scena, impilando meccanicamente sequenze di stucchevole verbosità senza la possibilità di tradurle in immagini. La ricerca della verità, tra i due protagonisti, il vecchio e autorevole professor Sandon (John Hurt) e il suo allievo/ammiratore Martin (Elijah Wood), impegnati in un fredda analisi dei delitti che coincidono con il loro incontro, si risolve in frequenti digressioni metafisiche e filosofiche contrapposte alla razionalità della logica matematica, operazione cervellotica e un po’ fine a sé stessa. Come improvvisati Sherlock Holmes e il fido Watson essi si scambiano i ruoli, si sfidano sui terreni avversi restandone impantanati, il film impacciato nella progressione drammatica perde di mordente e tutto scivola in una richiesta di sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore che non sempre è possibile mantenere. L’impaccio di de la Iglesia è evidente, il talento visionario e il gusto del grottesco escono fuori in pochissimi casi spezzando l’asetticità intellettuale del racconto quasi a ribadire una proprietà artistica fortemente compromessa dalle esigenze di sceneggiatura. Un paio di momenti shock con corpi mutilati, la follia che fa capolino, un piano sequenza di indubbio valore tecnico, qualche inquadratura distorta che richiama la visionarietà di un altro decaduto europeo guarda caso anch’egli dopo una grande produzione americana (Alien 4), Jean Pierre Jeunet e risorto con un piccolo delicatissimo film (il favoloso mondo di Amelie), con il quale condivide l’uso di un grande attore come Dominique Pinon che alla fine riusulta essere la chiave di volta per la risoluzione del film. Null’altro, algidi assiomi e ostentazione culturale si accavallano al “vorrei ma non posso” della costruzione old style del giallo cerebrale e deduttivo, il gioco delle parti si sfalda in una tenue tenzone a carte scoperte di un triangolo amoroso improbabile mentre fa capolino addirittura una velata attrazione omosessuale tra i due protagonisti, messa lì tra una discettazione e l’altra solo per confondere ulteriormente le carte. Ne risulta così un Codice da Vinci-parte seconda, un Cluedo con i dati truccati, una Agatha Christie sotto sedativi, destino di questi talenti privati, europei, personali nella rappresentazione delle loro storie che imbrigliati in progetti rigorosi mostrano più che limiti, insofferenza.

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